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L´adozione mite tra valutate “capacità genitoriali” e “supremo interesse del minore”
Nota di Danilo Marchese
Cass. civ., Sez. I, 13 febbraio 2020, n. 3643
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Nota di Danilo Marchese
Oggetto della sentenza in esame è l’annullamento della dichiarazione di adottabilità, chiesta da una madre migrante, in quanto la Corte d’Appello di Roma, confermando la pronuncia emessa in primo grado, aveva dichiarato lo stato di adottabilità delle figlie minori. La vicenda riguarda una giovane donna nigeriana e le sue due figlie, le quali sono state allontanate dalla madre successivamente al ricovero in ospedale della più piccola. Nel corso di tale ricovero, la madre entrava in conflitto con il personale sanitario sui trattamenti a cui doveva essere sottoposta la bambina. Iniziava così una complessa vicenda processuale che terminava in primo grado con la dichiarazione di adottabilità delle minori e la definitiva interruzione dei rapporti delle stesse con il proprio genitore biologico. Le minori inoltre, all’esito della decisione del Tribunale, venivano collocate presso due differenti famiglie e sottoposte così all’ulteriore trauma della separazione reciproca. La Corte di Appello, in sede di impugnazione, pur decidendo di riaprire l’istruttoria, non ristabiliva le frequentazioni al fine di non inficiare l’eventuale esito di una adozione delle famiglie affidatarie. Veniva in seguito espletata una nuova consulenza d’ufficio, che vedeva assicurata anche la presenza di un mediatore e la presenza di un’antropologa. Tuttavia, pur evidenziando la consulenza come l’intero procedimento in primo grado fosse inficiato da un grave pregiudizio nei confronti della signora, e pur avendo supposto che, nonostante le evidenti fragilità della madre, ella potesse, se adeguatamente supportata, mantenere un ruolo positivo nella vita delle due figlie, la Corte d’Appello confermava la sentenza pronunciata in primo grado. La madre, nello specifico, contestava in appello lo stato di abbandono, sostenendo che non vi fossero condotte a danno delle minori, nonostante ella versasse in condizione di migrante; aveva, infatti, un lavoro regolare, il permesso di soggiorno e un legame affettivo solido con le due figlie. La pronuncia in appello era basata sulla consulenza tecnica collegiale, che metteva in luce un quadro psicopatologico dell’appellante difficilmente compatibile con quelle che sono le esigenze evolutive delle figlie. Si evidenziava che la non consapevolezza della situazione sanitaria in cui l’appellante versava, in quanto affetto da HIV, [continua ..]