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L´assestamento del rapporto tra dumping, concorrenza sleale e abuso di posizione dominante
Vincenzo Iaia
Cass. civ., Sez. I, 7 febbraio 2020, n. 2980
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Nota di Vincenzo Iaia
Con l’ordinanza in epigrafe, la Suprema Corte di Cassazione (di seguito S.C.) si è occupata di perimetrare il confine entro il quale la vendita sottocosto (tradotta nel termine anglosassone dumping) integri un atto di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c. Più precisamente, nel giudizio instaurato innanzi al Tribunale di Milano, la società attrice domandava l’accertamento dell’integrazione da parte della società convenuta di una serie di atti di concorrenza sleale, corrispondenti ai tre numeri di cui all’art. 2598 c.c., segnatamente – rispettando l’ordine numerico – l’imitazione servile, la concorrenza sleale denigratoria e la c.d. concorrenza sleale “atipica”, nella forma della vendita sottocosto. Le condotte integranti i primi due numeri della norma in parola sono state pacificamente escluse nelle more dei giudizi di merito, laddove è risultata foriera di alcuni dubbi ermeneutici la questione circa l’ambito estensivo entro il quale la vendita di beni o servizi a prezzi inferiori rispetto al costo di produzione, nonché rispetto al costo medio sostenuto dagli altri imprenditori [1], potesse qualificarsi come atto contrario ai parametri di correttezza professionale, ex art. 2598, n. 3, c.c. A tal proposito, giova ricordare anzitutto, seppur in estrema sintesi, alcune delle soluzioni proposte dalla dottrina in ordine all’identificazione dell’esatto elemento determinante l’illiceità della vendita sottocosto: (i) la lunghezza della durata della pratica [2], (ii) l’animo di annientare i rivali, (iii) la detenzione di una posizione di forza economica sul mercato [3]. A fronte delle ricostruzioni dottrinali in discorso, vanno altresì menzionate le due opzioni esegetiche sviluppatesi intorno al dumping prospettate dalla giurisprudenza. La prima si innesta sul presupposto che le vendite a prezzi inferiori rispetto a quelli praticati dalle imprese concorrenti rientri nella lecita competizione di mercato limitatamente ai casi in cui la possibilità di applicazione del ribasso sia la conseguenza dell’ottenimento di economie scala tali da abbattere i costi di produzione. Tale pratica sarebbe, quindi, affetta da illiceità ogniqualvolta la riduzione del prezzo sia il frutto di una strategia di marketing atta ad alterare «subdolamente ed illusoriamente» [continua ..]