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Desidera un figlio maschio per rispettare la tradizione: per la Suprema Corte nessuna motivazione culturale può giustificare violenza sessuale e maltrattamenti in famiglia
Michele Emanuele Leo
Con la sentenza n. 13786 del 03.04.2023, la Suprema Corte di Cassazione sancisce un importante principio di diritto, essendo chiamata a pronunciarsi su una statuizione della Corte di appello di Napoli che confermava una decisione del 23 giugno 2021 del Tribunale di Nola con cui veniva condannato un imputato di origine straniera “per le pene di legge per i reati di maltrattamenti e violenza sessuale aggravata ai danni della moglie”.
La decisione veniva impugnata dal difensore dell’uomo per due motivi: 1) “violazione di norme processuali per omessa traduzione della sentenza di primo grado e di tutti gli atti successivi in lingua conosciuta all'imputato straniero”; 2) “violazione di legge e vizio di motivazione, in merito all'elemento psicologico, poiché la pretesa di rapporti sessuali era giustificata dal rapporto di coniugio e dal desiderio di un figlio maschio”.
Da quanto è possibile dedurre dalla lettura del provvedimento, l’imputato era stato condannato dal Tribunale per la condotta tenuta in danno della moglie convinto che i continuati maltrattamenti e la violenza sessuale in danno della consorte fossero ‘giustificati’ non solo dal vincolo matrimoniale, ma anche dalla propria determinazione a conseguire l‘obiettivo personale di avere un figlio maschio. Secondo la difesa dell’uomo sostanzialmente egli avrebbe ignorato che l’ordinamento italiano non consente determinati comportamenti considerandoli anzi lesivi della dignità della persona anche se verificatisi all’interno del vincolo matrimoniale.
In termini di diritto, veniva eccepita dal difensore dell’imputato l’incapacità di comprensione del proprio assistito del provvedimento conclusivo di giudizio per non essere stato tradotto nella lingua di origine e di conseguenza la violazione di una garanzia concessa dal legislatore in favore di chi proviene da altro Paese. L’art. 143 c.p.p infatti, prevede l’assistenza gratuita di un interprete per l’imputato che “non conosce la lingua italiana”.
In vero, nel caso che qui ci occupa, durante la fase delle indagini preliminari, l’ordinanza cautelare era stata notificata all’uomo in carcere con traduzione nella lingua madre.
La difesa però sottolineava che, all’esito del giudizio di primo grado, la detta garanzia non gli era stata fornita. In realtà, già l’interrogatorio disposto dal GIP veniva rinviato per mancanza dell’interprete, presenza invece successivamente assicurata in fase dibattimentale. L’eccezione del difensore in merito al primo motivo si soffermava poi sulla circostanza che l’interprete non fosse stato nominato per il proprio assistito, ma solo per la vittima del reato.
All’esito dell’impugnativa e del giudizio di secondo grado, la Corte d’appello di Napoli evidenziava invece che“l'imputato conosceva la lingua italiana sia perché, al momento della notifica dell'ordinanza di applicazione degli arresti domiciliari, aveva comunicato alla polizia giudiziaria il suo indirizzo e i dati del difensore di fiducia, sia perché, all'udienza dibattimentale, il Tribunale aveva attestato che l'imputato parlava e comprendeva la lingua italiana per cui era necessario l'interprete solo per la moglie” e che non avesse manifestato in alcun modo la propria impossibilità di comprensione perdendo così il diritto di beneficiare “della diversa decorrenza del termine per impugnare dalla notifica della sentenza tradotta in lingua conosciuta”.
La circostanza è rilevante in quanto il Collegio, specificava apertiis verbis che in ogni caso, la mancata attività fosse “recessiva rispetto all'ulteriore considerazione pure svolta dalla Corte territoriale, e non confutata con il ricorso per cassazione, secondo cui spetta in via esclusiva all'imputato alloglotta, e non al suo difensore, la legittimazione a rilevare la violazione dell'obbligo di traduzione della sentenza previsto dall'art. 143 cod. proc. pen., al fine di consentire all'imputato che non comprenda la lingua italiana l'esercizio di un autonomo potere d'impugnazione.” In mancanza quindi di una espressa doglianza del destinatario del provvedimento, nulla può essere eccepito a riguardo. Pertanto, il primo motivo attinente l’eccepito vizio è stato valutato dalla Suprema Corte di Cassazione palesemente infondato.
Occorre ora valutare il secondo motivo attinente “alla scriminante socioculturale che, nella prospettazione della difesa, avrebbe escluso il dolo o comunque indotto l'imputato a un errore scusabile sull'ignoranza della legge penale italiana.”
La chiave di volta per la valutazione del secondo motivo di ricorso, a parere del Giudice di legittimità, è data dalla non contestazione della condotta dei maltrattamenti fisici con conseguenti lesioni personali e morali attuate attraverso ingiurie, minacce e plurime violenze sessuali nei confronti della moglie. In termini di stretto diritto infatti, la mancata contestazione equivale a riconoscimento della circostanza.
Ed infatti, il Supremo Giudice riferisce: “Non è in contestazione quindi la condotta dei maltrattamenti fisici (lesioni personali) e morali (ingiurie e minacce) né quella delle plurime violenze sessuali perpetrate dall'imputato nei confronti della moglie” quanto più la valutazione dell’eccepita ignoranza da parte dell’imputato in ordine alla legge penale italiana. In termini sintetici, l’uomo avrebbe ignorato che la propria condotta fosse punibile secondo lo Stato Italiano. Questo, secondo la difesa, gli avrebbe consentito di poter usufruire della scriminante socioculturale con conseguente assenza di dolo nella commissione del reato o di applicazione di errore scusabile. Nemmeno le dette considerazioni sono però sufficienti a scagionare l’imputato.
La correttezza e la logicità del provvedimento impugnato sono confermate da recenti e consolidate statuizioni della Suprema Corte di Cassazione in quanto le scriminanti non possono trovare applicazione per tutte le categorie di reato: “il motivo culturale sottostante a una condotta illecita sia del tutto irrilevante” laddove la fattispecie di reato si sostanzi nella commissione di un reato a sfondo sessuale. Al tempo stesso “non assumono alcun rilievo scriminante eventuali giustificazioni fondate sulla circostanza che l'agente, per la cultura mutuata dal proprio paese d'origine, sia portatore di una diversa concezione della relazione coniugale e dell'approccio al rapporto sessuale, in quanto la difesa delle proprie tradizioni deve considerarsi recessiva rispetto alla tutela di beni giuridici che costituiscono espressione di diritti fondamentali dell'individuo (Sez. 3, n. 7590 del 20/11/2019, dep. 2020, N., Rv. 278600) e che in tema di cause di giustificazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell'esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano, in cui l'agente ha scelto di vivere, attesa l'esigenza di valorizzare la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l'instaurazione di una società civile multietnica”.
In conclusione quindi è possibile desumere dalla prefata statuizione un importante principio di diritto del nostro ordinamento giuridico, ovvero “nessuna motivazione culturale può giustificare, neanche in termini di errore sulla legge penale italiana, violazioni dell'integrità fisica e morale dell'individuo.”
Pertanto, tenuto conto del rigetto del ricorso, secondo il principio della soccombenza processuale, il ricorrente veniva condannato al pagamento delle spese processuali.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. III, 3 aprile 2023, n. 13786)
Stralcio a cura di Ilaria Romano
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