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Accesso civico e accesso documentale: la posizione di ITA

nota di Ambrogio Ietto.

La sentenza in commento assume rilievo in quanto è l’ultima di una lunga serie incentrata sul diritto di accesso. Molteplici, infatti, sono stati negli ultimi anni gli interventi giurisprudenziali volti a delineare i limiti e le forme di esercizio di tale diritto (es. Cons. Stato, A.P., n. 19/2020 sull’accessibilità degli atti dell’anagrafe tributaria; Cons. Stato, A.P., n. 4/2022, sull’accessibilità delle cartelle esattoriali). Ciò dimostra l’enorme rilievo dell’istituto in questione (in tutte le sue forme).

La questione processuale in commento nasce a valle del rigetto di una istanza di accesso presentata da un privato nella sua duplice qualità di singolo e di presidente di un’associazione. Con tale richiesta, l’istante chiedeva l’ostensione degli atti relativi ai procedimenti indetti da una società a controllo pubblico per il reclutamento del proprio personale (tra i quali, in particolare, bandi, regolamenti societari e delibere indicanti gli specifici criteri seguiti e le modalità di assunzione adottate nella circostanza).

Ritenendo illegittimo detto rigetto, l’istante presentava ricorso prima dinanzi al T.A.R. e, poi, visto il mancato accoglimento dello stesso in primo grado, appello dinanzi al Consiglio di Stato.

Centrale, nel caso in rassegna, è la disquisizione sulla legittimazione passiva della società resistente.

Secondo la prospettiva dell’appellante, la appellata, in quanto società a controllo pubblico esercente attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario (ai sensi dell’art. 22 co. 1 lett. e) L. n. 241/1990) sarebbe tenuta al rispetto degli obblighi pubblicitari previsti per tali soggetti di diritto.

La società resistente è, infatti, controllata da un Ministero.

Viceversa, gli appellati (nonché l’adito T.AR.) evidenziano come l’art. 79 co. 5 D.L. n. 18/2020 espressamente preveda la non applicazione alle società operanti “nel settore del trasporto aereo di persone e merci” delle  “disposizioni previste dal decreto legislativo 19 agosto 2016, n.175”.

Da ciò ne deriverebbe la qualifica della resistente “come soggetto imprenditoriale di natura esclusivamente privatistica”, in quanto tale non tenuto ad alcun obbligo pubblicitario.

Il Consiglio di Stato, prima di pronunciarsi nel merito della questione, effettua una serie di precisazioni preliminari fondamentali.

In prima battuta, si sofferma sulla qualificazione giuridica del diniego opposto dalla resistente.

Il rigetto dell’istanza di accesso presentata dall’appellante era stato formalizzato, infatti, mediante una missiva del legale della società resistente (che non sarebbe stato legittimato a pronunciarsi sulla questione).

Al riguardo va precisato come, sulla base dello Statuto della società (approvato con il D.M. 9 ottobre 2020), l’organo societario deputato a manifestare all’esterno la volontà della società fosse il consiglio di amministrazione, il quale poteva agire tramite o l’amministratore delegato o un terzo appositamente delegato.

Senonché il Consiglio di Stato evidenzia come il soggetto convenuto non abbia prodotto in giudizio alcun atto dal quale sia deducibile il conferimento al legale procuratore dei necessari poteri di rappresentanza della società nei rapporti con i terzi.

Da ciò ne deriva, dunque, la “non imputabilità alla società della predetta missiva di diniego in questa sede contestata, con conseguente qualificazione dell’azione proposta dall’appellante quale ricorso avverso il silenzio della” società appellata.

Così ricostruita la questione, la contestava missiva diviene “tamquam non esset” ai fini dell’istanza di accesso e del presente giudizio, “con conseguente configurabilità dell’iniziativa processuale dell’appellante non quale impugnazione di un formale atto di rigetto della propria richiesta, bensì quale domanda avverso il silenzio che, per quanto concerne l’accesso documentale, assume la valenza di rigetto ai sensi dell’art. 25 co.4 L. n. 241/1990 e, per quanto invece concerne l’accesso civico, si configura quale mera condotta omissiva inadempiente rispetto all’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso e motivato nel termine di 30 giorni dalla presentazione dell’istanza ai sensi dell’art. 5 co.6 D.Lgs. n. 33/2013”.

A fronte di tale riqualificazione giuridica dell’azione processuale, in astratto si sarebbe dunque posto il problema di individuare il rito applicabile (se quello ex art. 116 c.p.a., ossia contro il silenzio-rigetto, o quello ex art. 117 c.p.a., ossia avverso il silenzio-inadempimento).

Il problema, di enorme rilievo in astratto per via dei differenti termini di esperibilità (30 giorni o fino alla durata dell’inadempimento), nel caso di specie non assume rilievo “poiché il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado è stato tempestivamente notificato (anche) ai sensi dell'art. 116 cod. proc. amm.”.

In seconda battuta, il Consiglio di Stato si preoccupa di verificare la natura dell’istanza di accesso presentata “ab origine” dal privato (se documentale, civica o omnicomprensiva).

Sul punto, i giudici di Palazzo Spada, partendo dalla pacifica cumulabilità delle forme di accesso e valorizzando la generalità dell’istanza presentata, arrivano a ritenere che “l’accesso agli atti, a dispetto di quanto indicato nell’intestazione della richiesta, [ove si faceva riferimento solo all’accesso documentale] è stato domandato dall’appellante (…) non soltanto ai sensi degli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990, ma anche ai sensi del combinato disposto costituito dall’art. 19 co.3 D.Lgs. n. 175/2016 e dagli artt. 22, 46 e 47 D.Lgs. n. 33/2013”.

Per quanto riguarda l’istanza di accesso civico (semplice), presentata ai sensi dell’art. 5 co. 1 D.Lgs. n. 33/2013, si pone un primo quesito: se sussiste o meno un obbligo di pubblicazione degli atti di cui si richiedeva nella specie l’ostensione.

Come noto, infatti, due sono i presupposti di esperibilità di detta forma di accesso.

Anzitutto il destinatario dell'istanza deve rientrare tra quelli indicati dall’art. 2-bis del D.Lgs. n. 33/2013 e in secondo luogo l’atto di cui si chiede l'estensione deve essere oggetto di un obbligo legale di pubblicazione (c.d. “accesso proattivo”).

Sul primo aspetto, nel caso di specie non sussistono grandi perplessità, essendo alquanto evidente l’appartenenza della resistente alla categoria delle “società in controllo pubblico” di cui all’art. 2 bis co. 2 lett. b) e co. 3 D.Lgs. n. 33/2013 (almeno fino a quando un Ministero sarà titolare dell’intero pacchetto azionario).

A nulla rileva, infatti, che detta società, anche secondo quanto dichiarato nel relativo decreto istitutivo, agisca in regime di diritto privato. 

Le società a controllo pubblico (ed, in parte, anche quelle a mera partecipazione pubblica) sono soggette, a differenza delle società a capitale interamente privato, ad obblighi legali di trasparenza.

Maggiormente problematico, invece, risulta il secondo aspetto, relativo all'obbligatorietà (o meno) della pubblicazione degli atti richiesti.

Nell’ottica del giudice di prime cure, dirimente a tal proposito sarebbe il disposto dell’art. 79 co. 5 D.L. 17 marzo 2020 n. 18 (convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020 n. 27) mediante il quale il legislatore espressamente dispone la non applicazione del D.Lgs. n. 175/2016 a certe società.

Da questa disposizione ne deriverebbe che società come quella appallata nella sentenza in rassegna non sarebbero tenute al rispetto degli obblighi legali di trasparenza e pubblicazione.

Il Consiglio di Stato, sul punto, riforma quanto statuito dal T.A.R., sostenendo che “se l’art. 79 co.5 D.L. 17 marzo 2020 n. 18 esclude l’applicazione del D.Lgs. n. 175/2016 alla [società appellata] (…) non può, di per sé, concludersi che il D.Lgs. n. 33/2013 non sia applicabile alla” società appellata.

Ne deriva, dunque, che “l’esclusione (…) della disciplina di cui al D.Lgs. n. 175/2016 non implica automaticamente anche quella contemplata dal D.Lgs. n. 33/2013, mancando un’espressa previsione normativa primaria in tal senso nel richiamato art. 79 co.5 D.L. 17 marzo 2020 n. 18”.

I due testi normativi richiamati (il D.Lgs. 175/2016 ed il D.Lgs. 33/2013), per quanto connessi, hanno valenza autonoma.

L’art. 2 bis co. 2 lett. b) D.Lgs. n. 33/2013 estende, infatti, la disciplina dell’accesso civico e degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni nei confronti delle società in controllo pubblico “come definite” dall’art. 2 co. 1 lett. m) D.Lgs. n. 175/2016. Il richiamo che il D.Lgs n. 33/2013 opera nei confronti del D.Lgs. n. 175/2016 è chiaramente riferito alle sole “definizioni”, non certo alla disciplina in sé. A nulla rileva, dunque, la non applicabilità del D.Lgs. n. 175/2016 statuita dall’art. 79 co. 5 citato. È il D.Lgs n. 33/2013 a prevedere gli obblighi di pubblicazione per taluni atti e nessuna norma né preclude l'applicazione nella fattispecie in discorso.

D’altronde, chiarisce il Consiglio di Stato, “se il legislatore avesse voluto esonerare la [società appellata] agli obblighi di trasparenza di cui al D.Lgs. n. 33/2013 lo avrebbe espressamente previsto, al pari di quanto statuito in ordine alla non applicabilità del D.Lgs. n. 175/2016”.

Chiarita, dunque, l’ammissibilità dell’istanza di accesso civico semplice, l’attenzione del Consiglio si sposta sull’accesso documentale.

Ebbene i giudici di Palazzo Spada ritengono che anche l’istanza di accesso documentale sia “fondata” e debba essere accolta.

Primo aspetto su cui detto plesso giurisdizionale si interroga è sul se la resistente possa considerarsi “società esercente un’attività di pubblico interesse” ai sensi dell’art. 22 co. 1 lett. e) L. n. 241/1990.

A favore della risposta affermativa militano, per espressa statuizione del Consiglio di Stato, molteplici caratteristiche di detta società (quali, ad esempio, il controllo della società da parte di un Ministero, la stipula di appositi contratti di servizio con altro dicastero).

Ai fini del riconoscimento della legittimazione passiva ad essere destinataria della disciplina dell’accesso documentale, rileva, secondo quanto stabilito dall’art. 22 co. 1 lett. e) L. n. 241/1990, l’espletamento di un’attività di pubblico interesse che, nella fattispecie, si rinviene nell’erogazione del servizio di trasporto aereo reso dalla appellata.

Il Consiglio, sul punto, è fermo nel ritenere che “sebbene (…) l’attività esercitata sia certamente di tipo commerciale e destinata ad operare nell’ambito di un settore di mercato contraddistinto da un’elevata concorrenza, la [società appellata] non sembra possa ritenersi assimilabile ad un qualsiasi operatore economico privato, essendo i predetti elementi pubblicistici particolarmente indicativi di una rilevanza anche sociale connessa ad un interesse generale”.

Da una analisi congiunta della disciplina comunitaria (es. Regolamento CE n. 1008/2008) ed interna, il Consiglio di Stato rileva che “sebbene (…) non sia possibile formalmente riconoscerle la qualità di concessionario di un servizio pubblico universale, la [società appellata] sembra essere stata creata dallo Stato Italiano anche (ma chiaramente non soltanto) per soddisfare, nei limiti del possibile e nel rispetto del diritto dell’Unione Europea, i servizi pubblici essenziali di rilevanza sociale connessi al trasporto aereo in zone del territorio nazionale non in grado di garantire un’appetibile remuneratività per il vettore che ivi decida di operare”.

Ciò lo si ricava in primis dal fatto che lo Stato italiano ha disposto ingenti conferimenti di capitali per la costituzione di detta società ed, in secundis, dalla possibilità, per lo Stato, di imporre alla stessa oneri di servizio per garantire alla collettività talune rotte di particolare rilevanza sociale ma scarsamente remunerative per l’azienda.

L’imposizione di regole da parte dello Stato in relazione all’attività di trasporto aereo costituisce un evidente indice sintomatico di un rilevante interesse pubblico che pone l’operatore economico interessato in una “posizione analoga (sebbene non identica) a quella del concessionario di un servizio pubblico”.

D’altronde, rileva la Corte, “già l’art. 4 del Regolamento CEE n. 2408/92, come in seguito anche l'articolo 16 del Regolamento CE n. 1008/2008, in deroga ai principi comunitari di divieto di aiuti di Stato, ha previsto, in capo ai singoli Stati ed al fine di garantire il servizio di trasporto nei territori geograficamente svantaggiati, la possibilità anche di corrispondere degli emolumenti economici nei confronti delle compagnie che accettino di entrare in un mercato ritenuto ad alta rilevanza sociale alle condizioni dagli Stati stessi individuate mediante la previsione di appositi oneri di servizio pubblico (O.S.P.), obbligandosi all’erogazione di un servizio aereo secondo criteri di continuità, regolarità, capacità e tariffazione cui i vettori non si atterrebbero se tenessero unicamente conto del proprio interesse commerciale.”

Ne deriva, conclude la Corte, che la società appellata“può, pertanto, ritenersi ente di diritto privato esercente attività anche funzionale al soddisfacimento di pubblici interessi e, come tale, sottoposta agli obblighi di evidenza e trasparenza di cui l’accesso documentale costituisce disciplina applicativa”.

Risolta, dunque, la questione concernente la legittimazione della appellata, il Consiglio di Stato si sofferma sugli altri requisiti strumentali all’ammissibilità dell’istanza ex art. 22 l. 241/1990.

Appare evidente la sussistenza, nel caso concreto, di un collegamento tra gli atti di cui si è chiesta l’ostensione e l’interesse pubblico soddisfatto dall’attività di trasporto esercitata, al punto da giustificare l’accoglimento della richiesta.

Difatti “sussiste un evidente collegamento tra le modalità prescelte per il reclutamento del personale di volo e la qualità del servizio reso agli utenti, non occorrendo sul punto ulteriori argomentazioni.

Appare evidente, infine, anche l’interesse dell’appellante, nella duplice qualità vantata, a conoscere la documentazione richiesta, sia quale singolo aspirante a un nuovo impiego presso la società resistente sia quale presidente di associazione del personale di settore, in ragione della necessità di tutelare l’interesse collettivo degli iscritti.

 

Argomento: Accesso
Sezione: Consiglio di Stato

(Cons. St., sez. VII, 25 gennaio 2023, n. 860) stralcio a cura di Rossella Bartiromo

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“Occorre […] verificare se la I.T.A. S.p.A. rientri o meno in una delle due tipologie societarie considerate dall’art. 2 bis co.2 lett. b) e co.3 D.Lgs. n. 33/2013, ed ossia tra le “società in controllo pubblico” o tra le “società a partecipazione pubblica”. Il Consiglio di Stato ritiene che la I.T.A. S.p.A. rientri nell’ambito della prima tipologia societaria. Ed invero, secondo quanto previsto dall’art. 2 co.1 lett. m) D.Lgs. n. 175/2016, richiamato dall’art. 2 bis co. 2 lett. b) D.Lgs. n. 33/2013, per “società a controllo pubblico” si intendono “le società in cui una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo ai sensi della lettera b)”, ossia allorché ricorrano le condizioni di cui all’art. 2359 c.c., potendo il controllo “sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo”. L’art. 2359 c.c. ritiene controllata la società allorché un’altra società disponga della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria (n.1) o di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria (n.2) o eserciti un’influenza dominante in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa (n.3). Nel caso in esame ricorrono i presupposti di cui all’art. 2359 co.1 n. 1 c.c. poiché le quote societarie della I.T.A. S.p.A. sono attualmente detenute per intero dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che, pertanto, esercita un controllo pieno al punto da giustificare la qualificazione della I.T.A. S.p.A. quale società a controllo pubblico. Siffatta qualificazione deve essere, chiaramente, valutata allo stato, poiché in relazione alle società può avere incidenza il futuro ed eventuale mutamento della compagine sociale e dei conseguenti assetti societari tra i vari soci (non trattandosi di un ente pubblico contraddistinto da una struttura organizzativa-amministrativa rigidamente definitiva per legge). […] Pertanto, sino a quando l’attuale assetto societario non muterà in modo significativo, la I.T.A. S.p.A. [continua ..]

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