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Sulla configurabilità della c.d. aggravante del “metodo mafioso”

Chiara Mattei

 

La Suprema Corte, I sezione penale, con sentenza n.6053 del 21 febbraio 2022 ha statuito che, onde applicare l’aggravante di cui all’articolo 416-bis c.p., non è necessario che sussista un’associazione e il reo ne sia parte, ma è sufficiente che le modalità in cui la condotta criminosa si manifesta siano proprie del metodo mafioso. È decisivo, dunque, che nella commissione dei reati l’agente si avvalga della forza di intimidazione tipica dell’agire mafioso e dello stato di assoggettamento e di omertà che ne deriva.

Il giudizio di legittimità, nella specie, traeva origine da tre distinti gravami proposti da A.F., Ap.Ra. e P.C., condannati in primo grado con sentenza del G.U.P. di Napoli, confermata in grado di appello, per tre capi di imputazione unificati sotto il vincolo della continuazione.

Dalle emergenze probatorie, derivanti in via principale da intercettazioni ambientali e telefoniche raccolte nel corso delle indagini preliminari, poteva evincersi che i ricorrenti avevano partecipato in concorso ad una scorreria armata perpetrata da due individui con danneggiamento di alcuni esercizi commerciali, a titolo di rappresaglia nei confronti di un terzo soggetto che in precedenza aveva commesso atti intimidatori a danno di uno dei due esecutori materiali, quest’ultimo identificato nel corso delle indagini in B.A., esponente di un clan camorrista.

I reati contestati ai ricorrenti, sulla base del tessuto probatorio e fattuale, consistevano nel concorso aggravato in danneggiamento, detenzione e trasporto di armi, e accensioni ed esplosioni pericolose, realizzati con metodo mafioso.

I ricorsi proposti dai tre imputati, in estrema sintesi, censuravano, sotto diversi profili, l’illegittimità della sentenza della Corte di Appello di Napoli del 27 ottobre 2020 per vizi di motivazione e violazioni di legge. I ricorrenti lamentavano l’assenza di un percorso argomentativo che desse conto delle ragioni che imponevano di ritenere la colpevolezza, la sussistenza di responsabilità, nonché la causalità delle condotte assunte dai ricorrenti rispetto alla scorreria armata posta in essere dai due esecutori materiali.

I difensori delle parti, sostenevano, nello specifico, che gli apporti materiali forniti dai loro assistiti avessero natura del tutto marginale rispetto all’azione principale, essendo consistiti in atteggiamenti passivi ed estranei alla condotta assunta dagli esecutori, stante il fatto che in origine, l’atto criminoso avrebbe dovuto interessare la sola abitazione della vittima prescelta.

La Corte ha, tuttavia, ritenuto inammissibili tutti i suddetti motivi di ricorso.

In particolare, nella più parte dei motivi dedotti negli atti di ricorso, variamente argomentando,  le parti lamentavano il vizio del travisamento dell’atto ex art.606 c.p.p., co 1, lett.e), riferendosi nello specifico agli esiti probatori delle intercettazioni acquisite nel giudizio di primo grado.

Per tal motivo, il Supremo consesso, prima di procedere ad esaminare separatamente i singoli ricorsi, ha ritenuto di operare una precisazione di carattere ermeneutico, riportando tra l’altro un noto principio di diritto ai sensi del quale se è possibile dedurre con ricorso per Cassazione il vizio di travisamento della prova, non lo è contestare il travisamento del fatto, in caso contrario il giudice di legittimità sarebbe chiamato ad operare una rivalutazione delle emergenze probatorie, dunque a compiere una valutazione di merito, finendo per travalicare i limiti del giudizio di legittimità.

Il Collegio ha ricordato che “il controllo di legittimità operato dalla Corte di Cassazione non è funzionale a stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento giurisdizionale”.

La sentenza prosegue aggiungendo che gli indizi raccolti attraverso le captazioni telefoniche e ambientali sono idonei a costituire fonte diretta della prova della colpevolezza dell’imputato, senza necessità di ulteriori elementi a sostegno, purché abbiano carattere di gravità, precisione e siano tra loro concordanti. Ne consegue che la rivalutazione e reinterpretazione dell’intero contenuto delle intercettazioni, nel caso di specie richiesta in sede di legittimità dai difensori dei ricorrenti, è inammissibile.

Gli Ermellini, ancora in via preliminare, operano una considerazione ermeneutica in ordine al rapporto tra la motivazione della sentenza di primo grado e della sentenza in grado di appello, laddove come nel caso di specie siano coincidenti, richiamando il principio di diritto per cui: “Le sentenze di primo e secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di gravame non abbiano ancora riguardato elementi nuovi”.

Dunque, in risposta alle censure avanzate dai ricorrenti, il Collegio chiarisce che il percorso argomentativo seguito nella sentenza impugnata è in sintonia con quanto emerso nel corso del procedimento e conforme ai criteri ermeneutici consolidati espressi dalla Corte stessa.

Da ultimo, motivo comune agli atti di gravame, e di prevalente interesse, è il vizio di motivazione e violazione di legge in riferimento all’articolo 416-bis.

Le censure in questione tacciavano la sentenza impugnata di essere priva di un percorso argomentativo che esplicitasse le motivazioni che imponevano di applicare l’aggravante in questione, atteso che, secondo la prospettazione dei ricorrenti, sulla base delle emergenze probatorie non era in alcun modo possibile ricondurre le condotte da loro assunte all’operatività e al modus operandi della consorteria camorristica.

La Corte, diversamente, ha ritenuto che le circostanze ricostruite attraverso le emergenze probatorie imponessero di ascrivere la rappresaglia armata nel più ampio raggio di azione criminale del clan camorrista nel quale gravitava B., principale esecutore del fatto coadiuvato dai ricorrenti, dichiarando dunque pienamente condivisibili le conclusioni cui erano giunti i giudici della Corte di Appello di Napoli.

L’atto criminoso cui i ricorrenti hanno concorso, avente chiare finalità intimidatorie, avveniva in una zona urbana con l’intento di ivi riaffermare il controllo criminale di B, quale esponente di un clan della zona, e si poneva come tentativo plateale di rispondere ad un torto subito, ingenerando anche attraverso  l’esplosione di diversi colpi di arma da fuoco, uno stato di terrore nei cittadini della zona, spinti in tal modo a rifuggire la denuncia del fatto, come dimostrato, dall’assenza di testimonianze ricavate nel corso delle indagini. 

Ebbene, dalla descrizione del fatto appare incontrovertibile la sussistenza delle modalità di condotta descritte dall’aggravante di cui all’articolo 416-bis c.p. Il cui scopo è di contrastare quelle forme di criminalità poste in essere da individui in grado di intimidire e coartare la volontà delle vittime, loro assoggettate, proprio a causa del “milieu consortile in cui si muovono, ritenuto idoneo a suscitare paura di rappresaglie tramite complici, affiliati e soggetti contigui”.

Il metodo mafioso è riscontrabile laddove, come nel caso in questione, la fattispecie criminosa sia realizzata dall’agente valendosi della forza di intimidazione tipica del vincolo associativo e “della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva”.

Dichiarando infondati i motivi di ricorso attinenti l’applicazione dell’art.416-bis c.p. al caso di specie, la Corte di Cassazione ha, infine, aggiunto che la struttura dell’aggravante in parola “non presuppone necessariamente l'esistenza di un'associazione ex art. 416-bis c.p., nè che l'agente ne faccia parte, essendo sufficiente, ai fini della sua configurazione, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell'agire mafioso, certamente riscontrabile nel caso in esame”.

La motivazione si conclude con la precisazione che: “come affermato da questa Corte fin da epoca risalente, la ratio della disposizione "di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 non è soltanto quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando metodi mafiosi o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l'atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o meno in reati associativi, si comportino da mafiosi, oppure ostentino in maniera evidente e provocatoria una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi, quella particolare coartazione o quella conseguente intimidazione, propria delle organizzazioni della specie considerata" (Sez. 6, n. 49090 del 19/02/1998, Primasso, Rv 210405-01)”.

Argomento: Reati associativi
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. I, 21 febbraio 2022, n. 6035)
Stralcio a cura di Giulio Baffa
“Deve, invece, ritenersi infondato il motivo di ricorso, con cui si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata, in riferimento all’art. 416-bis.1 c.p., conseguenti al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto delle ragioni che imponevano l’applicazione della circostanza aggravante oggetto di contestazione [c.d. aggravante del metodo mafioso. NdA], il cui riconoscimento derivava dal travisamento delle emergenze probatorie, che non consentivano di ricondurre la scorreria armata, né direttamente né indirettamente, alla sfera di operatività del clan OMISSIS e alle modalità tipiche di una consorteria camorristica (…) Non può, invero, non rilevarsi che avvalersi del metodo mafioso ovvero delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. significa utilizzare la forza intimidatrice del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva. Questa aggravante, infatti, è stata inserita nell’ordinamento per contrastare le forme di criminalità promananti da soggetti in grado di intimidire e coartare le vittime, che sono forzate ad accontentare spontaneamente i loro aggressori, non tanto per la loro fama criminale, ma soprattutto per la caratura che gli proviene dal milieu consortile in cui si muovono, ritenuto idoneo a suscitare paura di rappresaglie tramite complici, affiliati e soggetti contigui. La struttura della circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, dunque, non presuppone necessariamente l’esistenza di un’associazione ex art. 416-bis c.p., né che l’agente ne faccia parte, essendo sufficiente, ai fini della sua configurazione, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso, certamente riscontrabile nel caso in esame. Ne consegue che, come affermato da questa Corte fin da epoca risalente, la ratio della disposizione “di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 non è soltanto quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando metodi mafiosi o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o [continua ..]

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