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Comunicazioni di cancelleria nella “posta indesiderata”. Inammissibilità della rimessione in termini tra negligenza dell´avvocato e preclusioni
Giacomo Pirotta
Con il provvedimento in epigrafe, la Corte di cassazione torna ad esaminare il rapporto tra processo civile e nuove tecnologie, concentrandosi sulla fruizione della rimessione in termini per l’omessa notifica del ricorso in appello e del decreto di fissazione dell’udienza nel rito locatizio.
Dalla lettura della sentenza di legittimità emerge che l’appellante – nonostante il puntuale utilizzo del processo civile telematico per il deposito dell’atto di gravame – ha poi omesso di notificare all’appellato il ricorso introduttivo con il decreto di fissazione dell’udienza emesso dalla corte. Secondo l’impugnante, la notificazione è stata impedita dal mancato perfezionamento della comunicazione di cancelleria, terminata inaspettatamente nella cartella SPAM. In prima udienza, a causa dell’intervenuta preclusione, l’appellante ha chiesto un nuovo termine per la notifica, omettendo però di indicare i motivi dell’inerzia; la corte ha quindi disposto un mero rinvio d’udienza e, all’adunanza successiva, l’impugnante ha promosso un’istanza di rimessione in termini ex art. 153, comma 2, c.p.c. producendo documenti e giustificando la decadenza nell’anomala inclusione della comunicazione nella cartella SPAM. Il giudice di seconde cure, ritenendo l’istanza ormai preclusa, ha dichiarato la sua inammissibilità e, per conseguenza, l’improcedibilità dell’appello intentato.
L’appellante soccombente ha quindi proposto ricorso per cassazione adducendo che il giudice d’appello avrebbe errato, in primo luogo, nel ritenere tardivo l’utilizzo del rimedio rimessorio e, in secondo luogo, nel considerare la parte negligente nell’utilizzo della casella PEC.
Il giudice di legittimità, vagliando i motivi di ricorso, ha chiarito che la parte processuale non può ottenere una rimessione in termini deducendo la negligenza del proprio difensore; secondo la corte, infatti, l’inadempimento del legale nella gestione della PEC costituirebbe un fatto esterno al processo e potrebbe tuttalpiù legittimare un’azione di responsabilità professionale verso l’avvocato.
Benché la conclusione sia condivisibile, il rigetto dell’istanza non dovrebbe dipendere dalla provenienza (interna od esterna) del fatto impediente al compimento dell’atto, bensì dall’operatività dello ius postulandi, rectius del peculiare rapporto di mandato intercorrente tra la parte processuale e il suo difensore (R. CAPONI, La rimessione in termini nel processo civile, Milano, 1996, 215). In tal senso, si può quindi pacificamente affermare che – nella sfera di discrezionalità riservatagli la legge – l’avvocato nominato è legittimato a compiere (ma anche ad omettere) «tutti gli atti del processo» che non siano «espressamente riservati» alla parte e ciò con efficacia direttamente vincolante nei suoi confronti.
Proseguendo nell’analisi della sentenza impugnata, il giudice di legittimità ha poi confermato gli orientamenti in materia di rimessione in termini soffermandosi soprattutto sull’attività di accertamento dell’impedimento “non imputabile”, sull’effettiva pregnanza di tale requisito e, infine, sulle preclusioni all’applicazione dell’istituto.
In merito al primo profilo, la Corte di cassazione ha ribadito che «l’apprezzabilità della non imputabilità alla parte del ritardo» è essenzialmente riservata alla valutazione discrezionale del giudice di merito; coerentemente, in sede di legittimità è precluso il riesame del fatto impediente e la valutazione effettuatane nei precedenti gradi. Malgrado tale rigidità, si devono però evidenziare spiragli di sindacabilità della decisione: ad esempio, se il rigetto dell’istanza di rimessione è dipeso dall’omesso esame di fatti decisivi della controversia, dovrà consentirsi la proposizione di uno specifico motivo di ricorso ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. che legittimerà un intervento della Cassazione sul punto.
Per quanto concerne il secondo profilo, ossia la pregnanza e la portata del requisito della “non imputabilità” del ritardo, la Suprema Corte aderisce alla cd. tesi oggettivistica, nella sua concezione assoluta; ciò comporta che la rimessione in termini sarà concessa solo quando la decadenza è dipesa da un fatto impediente, estraneo alla volontà della parte processuale, caratterizzato dall’assolutezza e non dalla mera difficoltà.
In questo arresto, quindi, la Suprema Corte non integra nella fattispecie rimessoria la nozione di “causa non imputabile” con il diverso criterio della diligenza; in altri termini, nel provvedimento annotato viene rinnegata la cd. tesi soggettivistica – a cui ambisce una parte della dottrina (C.E. BALBI, voce Rimessione in termini (dir. proc. civ.), in Enc. Giur. Treccani, XXVI, Roma, 1993, 7; F. DE SANTIS, La rimessione in termini nel processo civile, Torino, 1997, 142) – che legittimerebbe istanze di rimessione in termini in presenza di impedimenti non evitabili con comportamenti diligenti. La scelta della Cassazione – sebbene tenga correttamente scisso il concetto di colpevolezza da quello di imputabilità – meriterebbe però di essere attentamente vagliata onde evitare derive rigoriste. Ebbene, considerata l’evoluzione dell’istituto della rimessione in termini, conseguente alla sua generalizzazione e all’abbandono del presupposto del “caso fortuito” per la sua concessione, dovrebbe valorizzarsi il peculiare focus posto dal legislatore sul rapporto intercorrente tra l’impedimento e l’agente. Ciò posto, sarebbe forse opportuna una relativizzazione soggettivo-temporale dell’originario concetto di impossibilità oggettiva ed assoluta.
Ragioni di brevità impediscono di dilungarsi su tale questione, tuttavia pare auspicabile che la concessione della rimessione in termini prescinda da ostacoli oggettivamente insuperabili dalle forze umane e che, invece, presupponga – dal momento in cui è sorta la volontà di compiere l’atto e sino allo spirare del potere – un ostacolo obiettivamente insuperabile per quello specifico agente. Traslando sul piano processuale le riflessioni della dottrina civilistica in materia di impossibilità della prestazione, si potrà sostenere che, per ottenere la rimessione in termini, sarà sufficiente un’impossibilità “soggettiva” nel compimento dell’atto processuale (sulla differenza con l’impossibilità oggettiva ed assoluta, A. PONTECORVO, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione per fatto imputabile al creditore, Milano, 2007, 17-18).
Tornando al caso concreto, la Suprema Corte ha correttamente ratificato l’operato della corte di appello rinvenendo l’obbligo giuridico per il titolare di una casella PEC di dotarsi di software idonei a verificare l’assenza di virus informatici nei messaggi in arrivo e in partenza nonché di software antispam atti a prevenire la trasmissione di messaggi indesiderati; come chiarito dalla stessa Corte, il titolare dell’account PEC deve accertarsi del corretto funzionamento della propria casella e utilizzare dispositivi di controllo della corrispondenza classificata come “posta indesiderata”.
Da ultimo, i giudici di legittimità si sono concentrati su un ulteriore profilo di notevole interesse, ossia sulla sussistenza di preclusioni per promuovere un’istanza di rimessione in termini. L’analisi della questione appare di particolare utilità giacché l’art. 153, comma 2, c.p.c. non prevede termini perentori per l’esercizio del potere e, conseguentemente, eventuali impedimenti alla proposizione dell’istanza dovranno ricercarsi in diverse fonti preclusive.
Applicando gli studi chiovendiani in materia (G. CHIOVENDA, Cosa giudicata e competenza, in Saggi di diritto processuale civile, II, Milano, 1993, 411 ss.; ID., Cosa giudicata e preclusione, in Saggi di diritto processuale civile, III, Milano, 1993, 231 ss.), la Corte di cassazione ritiene operante nel caso di specie la cd. incompatibilità preclusiva; questa preclusione costituisce un logico sviluppo del brocardo latino “electa una via non datur recursus ad alteram” e consegue al compimento di un atto incompatibile con il potere interdetto.
Al di là delle fattispecie positivizzate (ad esempio, l’art. 157, comma 3, c.p.c., sulla rinuncia all’eccezione di nullità degli atti che ne impedisce il rilievo di parte), occorre domandarsi se – come ammesso dalla Suprema Corte – il giudice abbia la facoltà di rilevare il compimento di atti incompatibili e, in assenza di previsione di legge, ritenere precluso il potere “antagonista” incompatibile. Alcuni autori, infatti, preoccupati dell’incisività del fenomeno preclusivo, ritengono che tutta la materia sia assoggettata ad una vera e propria riserva di legge.
Le conclusioni della dottrina più cauta possono condividersi, ma solo per le preclusioni da ritardo (la cd. decadenza); in questo caso, infatti, il ruolo riservato alla legge è centrale nel determinare il momento di estinzione del potere in assenza di attività del suo titolare: trattasi di bilanciamenti di valori costituzionali tipici della politica legislativa.
Tali osservazioni non sembrano però valide per l’incompatibilità preclusiva che, diversamente dalla decadenza, può logicamente desumersi dai concreti sviluppi processuali; con questo non si intende sostenere che il legislatore non possa accentuare il carattere di incompatibilità per trasformare la contrapposizione di poteri in uno strumento di politica processuale, ma solo che – anche in assenza di tipizzazione – il giudice di merito può rilevare il compimento di atti che si dimostrano incompatibili con il successivo esercizio di un potere “antagonista”.
La Corte di cassazione – confermando quindi la decisione di merito – ha recepito questa impostazione e ha chiarito che la richiesta effettuata in udienza di fissare un nuovo termine per il compimento di un atto tardivo, in assenza di deduzioni sulla non imputabilità del ritardo, impedisce la promozione di una successiva istanza rimessoria a causa dell’incompatibilità di tale richiesta con la condotta previamente tenuta dalla parte.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. III, 15 marzo 2023, n. 7510)
stralcio a cura di Fabrizio Cesareo
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