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Sul danno da usura psico-fisica derivante dalla mancata fruizione dei riposi giornalieri e settimanali
Martina Scaffidi
Con la sentenza 9 maggio 2023 n. 12249, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione affronta la questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da usura psico-fisica, patito dal lavoratore e derivante dalla mancata fruizione dei turni di riposo.
In primo grado, il Tribunale accoglieva la domanda risarcitoria promossa da tre autisti dipendenti di un’impresa di trasporti, che lamentavano di aver subito un pregiudizio a causa della mancata fruizione dei riposi giornalieri e settimanali, come previsti dal Regolamento CE n. 561/2006.
Il datore di lavoro promuoveva appello avverso la sentenza emessa in primo grado ma veniva nuovamente dichiarato soccombente dalla Corte territoriale, che respingeva il gravame.
Della questione veniva quindi investita la Corte di Cassazione per pronunciarsi, per quanto di interesse in tale sede, sulla violazione e falsa applicazione del Regolamento CE n. 561/2006, sopra richiamato, nonché degli artt. 2059, 2087, 1223, 2727, 2729 e 2697 c.c.
In primo luogo – assume parte ricorrente – la Corte d’Appello ha errato nel ritenere applicabile “la disciplina comunitaria in luogo della disciplina nazionale di cui alla legge del 1958 in materia di riposi giornalieri e settimanali dei lavoratori addetti al trasporto di linea extra urbano”.
Nello specifico, secondo il datore di lavoro, la disciplina sovranazionale trova applicazione solo nei casi di trasporti stradali il cui percorso supera i 50 km, mentre il caso di specie afferisce a trasporti di tipo cd. “misto”, ossia solo in parte eccedenti i 50 km, e comunque in misura non prevalente. Siffatto ragionamento sembra peraltro avvalorato dall’Interpello n. 27 del Ministero del Lavoro, che indica il criterio della prevalenza dell’attività svolta per l’individuazione della disciplina in concreto applicabile.
La questione impone agli Ermellini di interrogarsi sulla corretta interpretazione del Regolamento CE n. 561/2006, relativo all’armonizzazione di alcune disposizioni in materia sociale nel settore dei trasporti su strada. In particolare, dall’analisi degli articoli 1, 2 e 3 del Regolamento e dei correlati considerando, emerge chiaramente l’intento del legislatore eurounitario, che è quello di introdurre “un complesso di regole più semplici e chiare, di immediata comprensione, che possano essere facilmente interpretate e applicate tanto dalle imprese del settore quanto dalle autorità che devono farle osservare” al fine “di armonizzare le condizioni di concorrenza fra diversi modi di trasporto terrestre […] nonché di migliorare le condizioni di lavoro e la sicurezza stradale […], ottimizzare il controllo e l’applicazione da parte degli Stati membri nonché a promuovere migliori pratiche nel settore dei trasporti su strada”.
Quanto sopra induce la Suprema Corte a ritenere che il Regolamento Europeo in esame abbia valenza generale, giacché si applica “inequivocabilmente a tutte le imprese del settore “trasporti su strada” […] in modo da raggiungere il fine specifico di imporre delle condizioni minime di svolgimento dell’attività che tutelino sia gli operatori di esercizio di dette imprese sia i terzi impegnati nella circolazione stradale”.
Dal preminente interesse di garantire condizioni minime di sicurezza comuni, ne deriva altresì che il Regolamento CE n. 561/2006 prevalga a prescindere dal contesto di mercato di riferimento (i.e. concorrenza perfetta, concorrenza monopolistica, oligopolio e monopolio).
L’applicazione del Regolamento CE n. 561/2006 anche alle imprese di trasporto che prevedono turni “misti” trova conferma in una pronuncia della Corte di Giustizia UE del 9 settembre 2021, richiamata dalla Suprema Corte. In particolare, alla luce dell’art. 3 lett. a) del Regolamento citato, i giudici eurounitari hanno chiarito che il perimetro di applicabilità della norma esclude soltanto i veicoli adibiti in via esclusiva a percorrere distanze inferiori a 50 km. Diversamente argomentando, a detta della Cassazione, ne deriverebbe l’insostenibile conseguenza del mancato raggiungimento degli obiettivi propri del Regolamento, ossia il miglioramento delle condizioni di lavoro e la sicurezza stradale.
Una volta chiarito l’ambito di applicazione del Regolamento CE n. 561/2006, la Suprema Corte affronta il tema della risarcibilità del danno non patrimoniale per la maggiore usura psico-fisica derivante dalla mancata fruizione di adeguati e periodici turni di riposo. Secondo l’impresa ricorrente, la Corte d’Appello ha errato nel ritenere sussistente il danno in assenza non solo di specifiche allegazioni atte ad individuare in concreto il pregiudizio subito ma anche di presunzioni “gravi, precise e concordanti” da porre alla base del metodo di accertamento, considerando al contrario, quale unico fatto indiziario, la lunghezza dei periodi fonte di inadempimento datoriale.
Sul punto, richiamando una prassi ormai consolidata, la Cassazione ha ribadito che il danno da usura psico-fisica si iscrive nella categoria unitaria del danno non patrimoniale, potendo derivare tanto da fatto illecito quanto da inadempimento contrattuale, e la sua risarcibilità è condizionata alla sussistenza di un pregiudizio patito dal danneggiato, che deve essere provato anche eventualmente ricorrendo a presunzioni semplici. Rispetto al danno alla persona, che va sempre provato sia in ordine alla sussistenza sia al nesso eziologico, il danno da usura psico-fisica può essere dedotto anche in via presuntiva.
La Cassazione aderisce dunque al ragionamento logico-giuridico della Corte di Appello, che a sua volta ha ritenuto di desumere “l’anormale gravosità del lavoro e, dunque, il danno da usura psico-fisica” proprio “dalla specifica allegazione della lunghezza dei periodi nei quali si è registrato l’inadempimento datoriale”.
In applicazione di tale principio giuridico, ne consegue che spetti al datore di lavoro dimostrare la fruizione dei riposi compensativi dei lavoratori, quali fatti impeditivi del danno lamentato.
In conclusione, statuisce la Suprema Corte, il danno da usura psico-fisica non può dirsi provato in re ipsa ma va sempre dimostrato, anche mediante il ricorso a presunzioni semplici dalle quali si evinca la “maggiore gravosità dell’attività prestata durante i periodi destinati al riposo ricavata dalla valutazione della cadenza delle tratte e dei turni”, per l’effetto ribaltando sul datore di lavoro l’onere di fornire prova contraria.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. Lav., 9 maggio 2023, n. 12249)
stralcio a cura di Fabrizio Cesareo
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