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Delitto di tortura: è sufficiente anche un unico atto lesivo dell´incolumità o della libertà individuale e morale della vittima
nota di Stefano Solidoro
Con la sentenza in commento la Cassazione ha modo di pronunciarsi per la prima volta, pur in sede di giudizio cautelare, sui noti fatti di cronaca avvenuti nell’aprile 2020 presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere, teatro delle violenze perpetrate da un nutrito numero di agenti della Polizia Penitenziaria ai danni dei detenuti, che protestavano per la mancanza di presidi anti-Covid.
Chiamata a stabilire la legittimità di un’ordinanza applicativa degli arresti domiciliari nei confronti del Comandante della Polizia Penitenziaria della predetta casa circondariale, innanzitutto la Corte riassume il compendio istruttorio dal quale emerge la “violenza cieca” esercitata durante la “perquisizione speciale”, in realtà una vera e propria spedizione punitiva, nel corso della quale oltre trecento reclusi subivano trattamenti vessatori ed umilianti di tale intensità da cagionare in molti di loro "reazioni emotive particolarmente intense, come il pianto, il tremore, lo svenimento, l'incontinenza urinaria": l’amministrazione penitenziaria cercava quindi di occultare l’accaduto producendo atti e documenti falsi tesi a simulare inesistenti condotte delittuose dei detenuti, ragion per cui la locale Procura ipotizzava in capo a diversi pubblici ufficiali i reati di falso, calunnia, e depistaggio, oltre a quelli di lesioni aggravate e tortura.
La S.C. passa poi ad esaminare il primo motivo di ricorso, con il quale l’indagato contesta la mancanza di gravi indizi di colpevolezza a suo carico per tutte le ipotesi di reato, sollevando inoltre dubbi sulla stessa configurabilità del delitto ex art. 613 bis c.p.
Confermata la solidità delle accuse circa le condotte di falso e depistaggio, stante le inequivoche direttive del Comandante risultanti in atti, la Corte si sofferma sulla lamentata insussistenza, sul piano materiale e soggettivo, di una responsabilità ai sensi dell’art. 40 co. 2 c.p. per i delitti di lesione e tortura, non avendo il ricorrente partecipato personalmente all’operazione, delegata ad altri soggetti per ordine dei superiori: tale addotta “interruzione della catena di comando” avrebbe precluso al Comandate di prendere contezza delle condotte illecite poste in essere dagli agenti, da lui non prevedibili, privandolo al contempo di qualunque concreto potere impeditivo degli eventi verificatisi.
La tesi difensiva non viene tuttavia avallata dalla Suprema Corte che, tuttavia, si discosta dalla ricostruzione in termini di concorso omissivo formulata dal Tribunale del Riesame, affermando che la mancata presenza dell’indagato sul luogo dei fatti non consente affatto di escludere la sussistenza di una sua responsabilità concorsuale di tipo commissivo, non solo morale ma anche materiale, per i reati contestati.
Ciò sul presupposto secondo cui il concorso materiale "non può essere limitato (…) al solo autore, cioè a colui che compie gli atti esecutivi del reato (…) ma è, evidentemente, esteso anche al c.d. ausiliatore (o complice), cioè colui che si limita ad apportare un qualsiasi aiuto materiale nella preparazione o nella esecuzione del reato (…) e l'istigatore - che si limita a rafforzare o eccitare in altri un proposito criminoso già esistente - che integrano la fattispecie del concorso morale".
A questo proposito, la S.C. sottolinea i molteplici elementi dai quali è possibile evincere il contributo di istigazione ed ausilio del Comandante, che dalle conversazioni intercettate risultava aver attivamente promosso la richiesta di perquisizione speciale suggerita dal superiore, adoperandosi per ottenere l’intervento di agenti armati di scudi e manganelli, oltre ad aver diretto la riunione preliminare durante la quale si raccomandava con i propri uomini di agire senza alcuna remore nei confronti dei detenuti, complimentandosi poi con loro per la riuscita dell’operazione: non solo, era lo stesso indagato che individuava in seguito 14 detenuti da punire con maggior rigore, in quanto ritenuti gli ideatori della rivolta, e ciò secondo la Corte certifica una volta di più "la piena e consapevole partecipazione" del Comandante alle perquisizioni "sfociate in vere e proprie torture, alle successive vessazioni riservate, anche nei giorni successivi, in particolare ai detenuti trasferiti nel reparto Danubio”.
Venendo alla contestata qualificazione dei fatti nel reato di tortura, la critica della difesa si incentra sulla mancanza del requisito della abitualità della condotta illecita, circoscritta ad un singolo evento, per quanto di rilevante caratura.
Tuttavia, la Cassazione supera tale doglianza offrendo una lettura del delitto ex art. 613 bis c.p. quale fattispecie "eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell'incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona".
Secondo l’interpretazione del Giudice nomofilattico, la locuzione "mediante più condotte" ben può essere ascritta “ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico", senza contare come nella vicenda in esame le condotte "risultano proseguite, con ulteriori vessazioni, anche nei giorni successivi", soprattutto nei confronti dei quattordici detenuti indicati quali promotori della protesta.
Così risolto il piano materiale del reato, in relazione all’elemento soggettivo la Corte si limita ad osservare come la fattispecie di tortura non richieda “un dolo unitario consistente nella rappresentazione e deliberazione iniziali del complesso delle condotte da realizzare”, nemmeno quando assume forma di reato abituale vero e proprio, ragione per la quale, indiscussa la piena consapevolezza dell’indagato circa le reali finalità dell’operazione messa in essere, questa deve ritenersi sufficiente ad integrare il dolo richiesto dal delitto ex art. 613 bis c.p.
I restanti motivi di ricorso contestano la sussistenza del pericolo di reiterazione di reati della stessa specie e l’adeguatezza della misura cautelare irrogata, stante la sospensione dal servizio del Comandante disposta nelle more.
Sul punto, la Cassazione ricorda che il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie non va inteso come pericolo di reiterazione dello stesso fatto reato, quanto piuttosto di “astratti reati della stessa specie”, sottolineando che nella vicenda in esame il pericolo di recidiva è desumibile dall'esistenza di una “organizzazione, non improvvisata, ma ben rodata”, battezzata nelle chat degli agenti “Sistema Poggioreale”, attraverso la quale perpetrare “violenti pestaggi e degradanti umiliazioni nei confronti di circa 350 detenuti, "passati e ripassati" con 'divertimento' dagli agenti di Polizia penitenziaria, e con cinica soddisfazione per il lavoro "di altissimo livello" fatto”.
L’esistenza di una tale prassi comportamentale, ben nota ed approvata dal ricorrente, priva i fatti contestati del carattere di “episodicità ed eccezionalità” adombrati dalla difesa, fondando invece una ragionevole prognosi di possibile commissione di ulteriori reati ai danni della incolumità personale dei detenuti, che neppure la sospensione disciplinare irrogata all’indagato potrebbe dirsi sufficiente ad elidere in concreto, stante la natura interinale del provvedimento e la sua inidoneità a impedire reati comuni violenti, come quelli in contestazione.
La decisione è ineccepibile nel valorizzare la teoria unitaria del concorso di persone, secondo cui ogni contributo causale alla realizzazione della fattispecie criminale, ancorché parziale o atipico, consente l’imputazione ex art. 110 c.p.: in tale prospettiva, anche la mancata presenza sul luogo del delitto può rappresentare un’attiva agevolazione dell’altrui condotta illecita, consentendo l’attribuzione di responsabilità a prescindere dalla individuazione di una posizione di garanzia e di un non facere penalmente rilevante ex art. 40 co. 2 c.p.
Non si discostano dalla giurisprudenza sul punto le considerazioni in tema di elemento materiale del delitto di tortura, che la Corte descrive quale reato solo eventualmente abituale, ritenendo sufficiente ad integrare il reato de quo anche un’unica, rilevante condotta che pregiudichi l'incolumità o la libertà della vittima, comportandone un trattamento inumano e degradante.
L’interpretazione del sintagma “mediante più condotte”, contenuto nell’art. 613 bis c.p., come riferibile “non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico”, presta certamente il fianco a obiezioni quanto al rispetto del principio di legalità, ma è al contempo quella maggiormente fedele alla linea seguita dalla Corte EDU, che si preoccupa di offrire adeguata tutela proprio a fronte di condotte efferate sviluppatesi in un breve arco di tempo, specie ove perpetrate da esponenti dei pubblici poteri.
Qualche dubbio suscita soltanto la ritenuta adeguatezza della misura cautelare, pur a fronte della contestuale sospensione dal servizio, vista la natura di reati comuni violenti di cui ai capi di incolpazione, reiterabili a prescindere dalla qualifica soggettiva pubblicistica: il ragionamento non sembra tener conto della vicenda concreta, caratterizzata da un abuso dei poteri connessi all’incarico, di talché venuto meno quest’ultimo risulta difficile sostenere l’attualità del pericolo di commissione di fatti “della stessa specie” di quelli per cui si procede, offensivi dei medesimi beni giuridici ivi tutelati.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. V, 16 marzo 2022, n. 8973)
Stralcio a cura di Ilaria Romano
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