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Falsa testimonianza: non può sussistere esclusivamente sulla base del contrasto tra le dichiarazioni rese in dibattimento e quelle rese nel corso delle indagini preliminari

Aurora Di Mattea 

Con tale recente arresto, la Cassazione ritorna sul reato di falsa testimonianza e sulla rilevanza delle contestazioni ex art. 500 c.p.p. ai fini di accertare la falsa deposizione.

 

La contestazione  prendeva le mosse da una testimonianza resa in dibattimento ed in particolare consistita nell’avere il teste, nel corso dell’esame, affermato il falso, negando le precedenti dichiarazioni ed in particolare perché a domanda del giudice se l’imputato, accusato di atti osceni in luogo pubblico, si fosse spogliato o meno, rispondeva di non averlo visto, mentre ai Carabinieri aveva precedentemente dichiarato il contrario ed in particolare di avere visto l’imputato con i pantaloni e le mutande abbassate.

 A seguito di condanna confermata in appello, per il reato di cui all’art. 372 c.p.  il difensore interponeva ricorso per cassazione deducendo il vizio di violazione della legge penale in reazione agli artt. 192 c.p.p. e 372 c.p. nonché per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 132, 133, e 62 bis c.p. Con il primo motivo di ricorso il difensore rappresentava che il giudice di secondo grado si fosse limitato a constatare la mera difformità tra le due dichiarazioni , senza tuttavia verificare quale delle due versioni rese fosse rispondente a verità, se quella riferita ai Carabinieri o  quella resa dinanzi al Giudice in dibattimento; sottolineando che la lettura ex art. 500 c.p.p. ai fini della contestazione serve in particolar modo per saggiare la credibilità del teste. E comunque ai fini dell’accertamento della falsa testimonianza, occorre prestare attenzione alle ulteriori risultanze processuali nella ricostruzione della dinamica e nel caso in esame vi erano ulteriori testimonianze che confermavano la versione resa dall’imputato in dibattimento.

La Suprema Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste accogliendo il primo motivo di ricorso. Invero  la Suprema Corte si è concentrata sulla valenza delle dichiarazioni precedentemente rese dal teste ai Carabinieri e sulla funzione attribuita  a queste dal Giudice di secondo grado, quale parametro di riferimento nell’accertare la falsità della deposizione resa in dibattimento.

In particolare riprendendo i motivi di ricorso, ha censurato la sentenza di appello nella parte in cui  ha riconosciuto alle dichiarazioni rese ai Carabinieri il parametro esclusivo di genuinità o falsità della successiva deposizione. E a conferma di tale argomento, ha richiamato un orientamento pacifico che    ritiene integrato il reato di falsa testimonianza se dal confronto con le altre risultanze processuali la dichiarazione resa in dibattimento viene smentita.

Ne discende che la mera difformità tra le due dichiarazioni è presupposto per rendere operativo l’istituto dell’art. 500 c.p.p., e nel passaggio al processo per falsa testimonianza la contestazione fatta in udienza rimane tale, non assumendo valenza e funzionalità diversa. Anche perché così ragionando, dice la Suprema Corte, si finirebbe per abrogare di fatto il principio posto alla base delle contestazioni, così come previsto al comma 2 dell’art. 500 c.p.p.

Ne consegue che il contrasto tra le due dichiarazioni non prova la falsa testimonianza, semmai può assumere rilevanza, laddove dagli altri elementi probatori raccolti, si addiviene alla conferma che le precedenti dichiarazioni fossero vere mentre le successive si sono rivelate false.

La Suprema Corte con questo nuovo arresto rimarca ancora una volta l’importanza delle contestazione e la loro valenza endoprocessuale. Infatti capita spesso, che il teste, dimentichi, quanto a suo tempo dichiarato, o abbia un ricordo diverso, da come precedentemente ricostruito in sede di indagini e verbalizzato dinanzi agli Ufficiali di P.G. La contestazione diventa momento dinamico dell’esame testimoniale, strumentale alla ricerca della veridicità di quanto dichiarato e alla ricerca della verità processuale. La difformità è un aspetto quasi- fisiologico dell’esame. Diventa patologico se la discrepanza cela una volontà del teste di celare quello che egli effettivamente sa.

La lettura del verbale o meglio della parte del verbale, in cui si riscontra la difformità delle due dichiarazioni, consente al Giudice di valutare la deposizione del teste e come collocarlo all’interno  del piano probatorio.

 La singola deposizione diventa quindi una tessera di un mosaico, e non può  essere portatrice in sè di vizi di utilizzabilità se non nel confronto con le altre risultanze processuali.

La Cassazione rimarca questo distinguo: non si può trarre dalla lettura ai fini della contestazione il reato di falsa testimonianza né si può attribuire il marchio di veridicità alle dichiarazioni rese durante le indagini.

Ma aggiunge un ulteriore profilo, precedentemente oggetto di contrasto. Non esclude l’utilizzo delle contestazioni per accertare la falsità della deposizione, così come precedentemente sostenuto  in un risalente indirizzo (Cass. Pen. Sez VI, 04 giugno 2009 n. 38107), ma esclude che solo dal contrasto possa emergere la falsa testimonianza.

Quindi, l’utilizzabilità della parte della testimonianza in cui vi è stata la lettura del verbale per la contestazione è riconosciuta ma non è prova della falsa testimonianza. Peraltro occorre precisare che la parte del verbale letta non è prova ma strumento per fare operare la contestazione della difformità. È il verbale della testimonianza nella sua integrità a divenire corpo di reato nel processo per falsa testimonianza.  Ma la mera divergenza tra le due deposizioni non è sinonimo di responsabilità penale. Anzi la Cassazione si spinge oltre,  e pretende che il piano di valutazione per accertare il reato de quo sia la divergenza tra quanto il teste dichiara e quanto egli conosce.

Sul punto si possono sollevare delle problematiche sul tenore delle verità omesse e se la tenuità di quanto taciuto nuoccia alla formazione del convincimento da parte del giudice.  Ma il reato di falsa testimonianza è un reato di pericolo, di seguito non occorre che il giudice sia ingannato, in quanto è già la stessa dichiarazione falsa nel momento in cui è resa in dibattimento a ledere la tutela dell’amministrazione della giustizia.

 

Argomento: Dei delitti contro l'amministrazione della giustizia
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Pen., Sez. VI, 2 marzo 2023, n. 9059)

Stralcio a cura di Fabio Coppola 

“Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale di Avellino del 24 settembre 2020, con la quale A.A. era condannato alla pena di anni due di reclusione (…) in ordine al reato di cui all'art. 372 c.p., perchè, deponendo come testimone dinnanzi all'autorità giudiziaria nel processo penale a carico di B.B., imputato per avere compiuto atti osceni in luogo pubblico, all'udienza del 18 ottobre 2018, affermava il falso, negando le precedenti dichiarazioni: invero, a domanda del giudice se l'imputato si fosse o meno spogliato, rispondeva di non averlo visto, laddove ai carabinieri di (Omissis) aveva dichiarato testualmente: "notavo che il B.B., nell'area dove era collocata la sorgente, si rotolava per terra 91 pantaloni e le mutande abbassati completamente nudo, tanto che si vedevano i genitali". (…) Com'è noto, infatti, le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate unicamente ai fini della credibilità del testimone (art. 500, comma 2, c.p.p.), mentre, dalla lettura della sentenza in esame, emerge chiaramente che sono state proprio le dichiarazioni rese dal ricorrente a sommarie informazioni testimoniali dinanzi ai Carabinieri, in data 29 agosto 2012, nell'ambito del procedimento a carico di B.B., a fungere da metro di valutazione di quanto dallo stesso dichiarato, in veste di testimone, nel processo celebrato nei confronti del predetto. La Corte di merito ha dato per pacifico tale assunto. Nell'ambito del processo in cui rende la sua deposizione, il testimone è, infatti, immune da responsabilità, potendo unicamente essere ritenuto attendibile o meno, tanto che l'art. 476, comma 2, c.p.p. stabilisce espressamente che, a differenza di quanto consentito dal previgente codice, non può essere arrestato concernenti il contenuto della deposizione. (…) Sembra, tuttavia, evidente come lo statuto di quelle dichiarazioni non possa subire mutamenti nel corso dell'eventuale successivo giudizio a carico del dichiarante, accusato di essere stato falso o reticente, nè che possa cambiare la rilevanza giuridica di quelle dichiarazioni, dovendosi, in particolare, escludere che il relativo contenuto possa fungere da esclusivo parametro di genuinità o falsità della deposizione testimoniale resa dibattimento.   La natura giuridica che il vigente codice di rito attribuisce alla disciplina delle [continua ..]

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