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Omessa comunicazione da parte della madre della paternità e configurabilità di responsabilità civile ai sensi dell'art. 2043 c.c.
Debora Berta
Cass. civ., Sez. III, 5 maggio 2020, n. 8459
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Nota di Debora Berta
In materia di tutela dei dati personali, la sentenza ricorda un principio già espresso dalla sentenza Cass. S. U. n. 3034 del 08/02/2011, secondo cui non costituisce violazione dei principi dettati dal d.lgs. n. 193 del 30/6/2003 l’utilizzo dei dati personali, anche contro la volontà del soggetto interessato, nello svolgimento di attività processuale giacché detta disciplina non trova applicazione in via generale (ai sensi degli artt. 7, 8, 24 e 46-47 del medesimo decreto, oggi sostituiti in conformità al regolamento (UE) n. 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27/4/2016 dagli artt. 2 undecies e 2 duodecies). Allo scopo di accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria, ovvero ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le funzioni loro proprie è possibile, infatti, fare uso dei dati personali anche contro la volontà del soggetto interessato. Così come il potere del soggetto interessato di opporsi al trattamento, cancellare i dati o limitare il trattamento dei dati a taluni utilizzi soltanto, incontra il limite dell’accertamento, dell’esercizio o della difesa di un diritto in sede giudiziaria. La sentenza precisa che quando i dati personali vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria che dovrà valutare e contemperare le esigenze di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, ma nel caso in cui le due esigenze non coincidessero, sarà il codice di rito e il principio di corretto svolgimento del giudizio (individuata come lex specialis) a prevalere sulle disposizioni contenute nel c.d. codice della privacy. La sentenza osserva come, in assenza di un vincolo matrimoniale, ovvero in mancanza di una vera e propria convivenza “more uxorio”, la mancata consapevole comunicazione all’altro genitore (nel caso di specie della madre nei confronti del padre) dell’avvenuto concepimento si traduce, ove non giustificata da un oggettivo apprezzabile interesse del nascituro (art. 250 c.c., commi 3 e 4) e nonostante tale comunicazione non sia imposta da alcuna norma, in una condotta “non jure” che, se posta in essere con dolo o colpa, può integrare gli estremi di una responsabilità civile, ai sensi dell’art. 2043 c.c. La condotta è infatti suscettibile di [continua ..]