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Ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza: definiti i rapporti tra le fattispecie di cui ai commi 1 e 2 dell´art. 2638 c.c.
Matteo Santamaria
Con la sentenza in commento la V sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha analizzato il reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza ex art. 2638 c.c., delineando i requisiti e le differenze intercorrenti tra la fattispecie prevista dal comma 1 e quella prevista dal comma 2.
L’art. 2638 c.c. contiene due differenti ipotesi delittuose con elementi caratterizzanti autonomi benché, precisa il Giudice nomofilattico, il bene giuridico tutelato da entrambe le fattispecie criminose sia lo stesso.
Sia il delitto di cui al comma 1 che quello previsto dal comma 2 dell’art. 2638 c.c., infatti, condividono il medesimo bene giuridico oggetto di tutela, “... da individuare nella funzione di mediazione tra stabilità ed efficienza economica degli operatori vigilati”.
Ciononostante, ricorda il Giudice di Legittimità, “... dal punto di vista strutturale, la norma incriminatrice costituisce una disposizione a più fattispecie, introducendo i due commi reati a sé stanti, sottoposti ad una pena autonoma ancorché di pari entità, ed appartiene al genus, individuato dalla dottrina, delle "norme miste cumulative".
L’art. 2638 co. 1 c.c., infatti, sanziona “... gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società o enti e gli altri soggetti sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza , o tenuti ad obblighi nei loro confronti, i quali nelle comunicazioni alle predette autorità previste in base alla legge, al fine di ostacolare l'esercizio delle funzioni di vigilanza, espongono fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazione , sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza ovvero, allo stesso fine, occultano con altri mezzi fraudolenti, in tutto o in parte fatti che avrebbero dovuto comunicare, concernenti la situazione medesima, sono puniti con la reclusione da uno a quattro anni. La punibilità è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi”.
Utilizzando le parole della Suprema Corte, ci si trova di fronte ad “... un reato che si manifesta, con sicura evidenza, come fattispecie di mera condotta (Sez. 5, n. 3555 del 07/09/2021, dep. 2022, Coen, Rv. 282981; Sez. 5, n. 29377 del 29/05/2019, Mussari, Rv. 276524; Sez. 5, n. 26596 del 21/05/2014, New Srl , Rv. 262637; n. 51897 del 2013, Rv 258033) e la relativa norma è integrata dalla previsione del dolo specifico d'offesa che, anticipando la soglia della punibilità, impone di considerare detta fattispecie alla stregua di un reato di pericolo concreto”.
Per quel che quivi interessa maggiormente, oltre alla significativa circostanza che l’ostacolo non deve verificarsi necessariamente ma è sufficiente che la condotta sia teleologicamente orientata ad indurre in errore il vigilante, è interessante analizzare la condotta contestata, la quale, in sostanza, consiste nell’esporre “... fatti materiali non conformi al vero nelle comunicazioni che [gli esponenti aziendali] hanno l'obbligo di fornire ex lege, ovvero occultino, con l'impiego di mezzi fraudolenti, fatti che avrebbero dovuto rendere noti”.
La fattispecie di cui al comma 1, pertanto, si manifesta come un reato di pericolo concreto a condotta vincolata, con il dolo specifico di ostacolare l’attività di vigilanza.
Il delitto previsto dal comma 2, invece, come affermato dalla Corte di Cassazione, punisce gli stessi soggetti indicati nel comma 1 “... ove in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni dovute, ostacolino consapevolmente l'esercizio delle funzioni de quibus. Nell'ambito della disposizione in esame, viene, dunque, contemplato un reato d'evento c.d. causalmente orientato, in cui l'ostacolo deve essere consapevolmente cagionato da qualsiasi condotta attiva o anche da uno specifico contegno omissivo, integrandosi in tale ultimo caso un'ipotesi di reato omissivo improprio espressamente positivizzato”.
Si tratta, quindi, di un reato a forma libera, la cui condotta deve essere posta in collegamento mediante nesso eziologico con l’evento della fattispecie, che coincide con l’ostacolo delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza.
La Suprema Corte ha correttamente precisato che nell’ambito del secondo comma “... l'evento di ostacolo all'esercizio delle funzioni di vigilanza, dunque, si realizza con l'impedimento in toto di detto esercizio ovvero con il frapporre al suo dispiegarsi difficoltà di considerevole spessore o con il determinarne un significativo rallentamento: difficoltà o rallentamento che devono dar corpo ad un effettivo e rilevante ostacolo alla funzione di vigilanza. Fuori da questi casi, il mero ritardo che non rechi effettivo e rilevante pregiudizio all'esercizio dell'attività di vigilanza non può essere sussunto nel paradigma punitivo delineato dal comma 2”.
Così ricostruite le due differenti ipotesi criminose, il Giudice nomofilattico ha analizzato un possibile concorso tra esse nel caso in cui le condotte fossero sovrapponibili.
Il caso è quello di una dichiarazione falsa e/o dell’occultamento nelle comunicazioni a cui sia conseguito un effettivo ostacolo all’attività di controllo.
In una situazione di tal fatta, ci si troverebbe innanzi alla condotta espressamente richiesta dal comma 1 che, al contempo, potrebbe ben coincidere con una delle condotte richiesta dalla forma aperta del comma 2 dell’art. 2638 c.c.
E, allo stesso tempo, potrebbe essere integrato sia l’evento richiesto dalla seconda fattispecie criminosa che la verificazione di un pericolo concreto richiesto dalla prima.
La Suprema Corte, benché non lo abbia espressamente trattato, nella sentenza in commento sembrerebbe escludere la possibilità di un concorso formale, verosimilmente in quanto il bene giuridico è il medesimo per entrambi i reati.
Gli Ermellini – ad avviso di chi scrive, con una interpretazione coerente con il dettato normativo e con i principi generali del diritto penale – hanno concluso che “... il concorso di norme che ne deriva si risolve in base al criterio di specialità disegnato dall'art. 15 c.p. ed a prevalere sarebbe la fattispecie contemplata dal comma 1, contenendo la stessa, rispetto al secondo, elementi specializzanti, che si traducono nel dolo specifico (c.d. specialità per aggiunta) e nella natura vincolata della condotta alternativa di falso (c.d. specialità per specificazione). In realtà, anche il comma 2 presenta un carattere di specialità per aggiunta rispetto al primo, richiedendo la verificazione dell'evento di ostacolo. Trattasi, in ultima analisi, di fattispecie avvinte da un rapporto di specialità bilaterale, figurativamente descrivibili come due cerchi che si intersecano, e che pongono decisive difficoltà in sede processuale sin dalla fase attinente alla corretta descrizione dei capi d'imputazione, ma soprattutto ex post all'atto del relativo accertamento giudiziale”.
Si rileva che probabilmente vi è un terzo elemento specializzante non ravvisato dalla Suprema Corte che coincide con l’oggetto della condotta: a ben vedere, infatti, nel comma 1 l’esposizione falsa o l’occultamento deve avere ad oggetto la "situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza”, mentre nel reato previsto dal secondo comma la condotta potrebbe avere ad oggetto qualsiasi tipo di informazione, non necessariamente riguardante la situazione economica, patrimoniale e finanziaria, purché da essa derivi l’effettivo ostacolo alla vigilanza.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. V, 7 marzo 2023, n. 9623)
Stralcio a cura di Fabio Coppola
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