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Per i provvedimenti in materia di beni culturali è sufficiente una motivazione plausibile e non illogica, essendo irrilevante la opinabilità nel merito delle valutazioni compiute
nota di Luca Del Prete.
Ancora una volta l’ordinamento dei beni culturali costituisce un ambito privilegiato per riflettere e precisare concetti generali del diritto amministrativo quali la discrezionalità tecnica (e quella amministrativa), il merito amministrativo e i limiti alla cognizione dell’atto da parte del giudice amministrativo. La sentenza in commento affronta in maniera analitica, alla luce del principio dell’effettività della tutela, la tematica dei limiti del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica in presenza di concetti giuridici indeterminati, con specifico riguardo alla materia dei beni culturali.
La vicenda origina dal diniego all’esportazione di un piccolo olio e dalla conseguente dichiarazione dell’interesse culturale disposta dal Ministero con un provvedimento che, in primo grado, il TAR annullava in prima battuta per difetto di motivazione ma che invece in secondo grado veniva confermato.
Va premesso che gli organi del Ministero, nel compiere la propria valutazione circa l’interesse culturale, funzionale a sua volta al rilascio o al rifiuto dell’attestato di libera circolazione, si attengono, ai sensi dell’art. 68, comma 4, del D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, agli indirizzi di carattere generale adottati con il D.M. 6 dicembre 2017, n. 537.
L’esaminata pronuncia del Consiglio di Stato si apprezza su un duplice piano: quello sostanziale e quello processuale.
Sul versante sostanziale la Sezione, premessa la differenza tra la discrezionalità tecnica e quella amministrativa, si sofferma sul limite esistente tra la prima ed il merito amministrativo. In particolare, nella discrezionalità amministrativa l’interesse pubblico si realizza a seguito dell’attività di mediazione svolta tra l’interesse pubblico primario e quelli secondari coinvolti dall’azione amministrativa. Di conseguenza, sul piano processuale, “il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla ragionevole ponderazione di interessi non previamente selezionati e graduati dalle norme”. La discrezionalità tecnica, invece, si sostanzia nella valutazione di fatti o situazioni alla stregua di norme tecniche a carattere specialistico la cui applicazione, lungi dal garantire un risultato univoco ed obiettivo, si connota per un inevitabile grado di opinabilità e di soggettività. Tuttavia – e qui si situa la linea di confine con il merito amministrativo – l’opinabilità è qualità ben distinta dall’opportunità (che, in quanto attinente al merito, è insindacabile in sede giurisdizionale).
Sul piano della tutela giurisdizionale la questione dei limiti alla cognizione dell’atto tecnico discrezionale riguarda strettamente l’individuazione dei confini che il giudice incontra nell’accesso al fatto.
La questione così posta, specie in presenza di concetti giuridici indeterminati, rientra in una tematica molto dibattuta in dottrina e in giurisprudenza, al di là dell’ambito specifico della tutela del patrimonio culturale.
Pur non essendo questa la sede per dare compiutamente atto del vivace dibattito in materia, va ricordato che a lungo è prevalsa l’idea che le valutazioni tecniche, pur differenti sul piano ontologico rispetto a quelle propriamente discrezionali, costituissero un ambito riservato all’Amministrazione e quindi non fossero sindacabili in sede giurisdizionale. Era l’esistenza del momento valutativo a fondare l’insindacabilità della decisione (e quindi il merito amministrativo) sia che si trattasse di una valutazione comparativa di interessi (discrezionalità amministrativa), sia che si trattasse dell’opinabilità di valutazioni complesse (discrezionalità tecnica). Pertanto quando i concetti indeterminati contenuti nella norma richiedono una necessaria attività di concretizzazione degli stessi ad opera dell’amministrazione, l’attività amministrativa conseguente sarebbe al più sindacabile solo sotto il profilo formale ed estrinseco del rispetto dei criteri di logica e di non contraddittorietà e nei limiti dell’eccesso di potere, ma non con riguardo al rispetto della disciplina scientifica applicata e della sua metodologia.
Tuttavia la necessità di dare piena attuazione al principio dell’effettività della tutela di cui agli artt. 24 e 113 della Costituzione, con il conseguente progressivo aumento della domanda di tutela nei riguardi dei pubblici poteri, ha portato ad una rivisitazione di tale orientamento. La più recente tendenza giurisprudenziale e legislativa, infatti, mette in luce come l’uso di concetti giuridici indeterminati comporti un’attività di concretizzazione da parte dell’amministrazione che, pur se complessa, non giustifica di per sé una riserva assoluta a favore della stessa, con preclusione del sindacato giurisdizionale. Sotto questo profilo, e con specifico riguardo alla tutela del patrimonio culturale, la decisione si inserisce in quell’indirizzo giurisprudenziale, inaugurato con la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato 9 aprile 1999, n. 601 che ha riconosciuto l’opportunità di una verifica del giudice più incisiva e penetrante degli apprezzamenti tecnici svolti dall’amministrazione.
Pertanto il sindacato del giudice potrà limitarsi ad un controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito, se ciò appare sufficiente per valutare la legittimità del provvedimento impugnato. Tuttavia, ove tale operazione non sia sufficiente, il controllo potrà estendersi ad una verifica dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criteri tecnici e metodologici osservati (nel caso di specie, in particolare quanto all’osservanza dei criteri di cui al menzionato D.M. 537/2017). In tal modo il giudice avrà sostanzialmente accesso al fatto, anche quando questo – come nel caso di specie – comporta l’uso di concetti giuridici indeterminati, senza però che tale operazione possa consentire al giudice di sostituirsi nella valutazione riservata, questa sì, alla pubblica amministrazione.
Inoltre la generalizzata ammissione della consulenza tecnica d’ufficio nel processo amministrativo ha consentito di ritenere superati gli ostacoli di ordine processuale che si opponevano al descritto accesso al fatto ad opera del giudice. In tal modo trova accoglimento la sempre più frequente pretesa dei privati ad un’analisi giudiziale approfondita della tematica controversa, con conseguente riduzione dell’area dell’insindacabilità giudiziale.
La pronuncia sposa quindi pienamente questo orientamento.
Il ragionamento svolto dai giudici di Palazzo Spada parte dalla considerazione che l’interesse culturale (e la sua importanza) entra all’interno della struttura della norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di fatto storico (accertabile in via diretta dal giudice) e costituisce dunque un “fatto ‘mediato’ dalla valutazione affidata all’Amministrazione”.
Infatti l’interesse culturale, rappresentando il presupposto del potere ministeriale di vincolo, costituisce il fatto al cui accertamento il giudice ha pieno accesso. Tuttavia, poiché, come accennato, è insita nella discrezionalità tecnica una componente soggettiva di opinabilità, l’esame giurisdizionale sarà volto ad accertare che l’opzione prescelta dall’amministrazione rientri tra “le risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce della scienza rilevante e di tutti gli altri elementi del caso concreto”, anche alla luce del rispetto dei citati indirizzi di carattere generale.
Vi è quindi la piena consapevolezza che la tecnica attiene al solo momento conoscitivo e non può fondare, di per sé sola, alcuna sfera di potere riservato.
Questo passaggio della pronuncia, ovvero l’affermazione di un tal sindacato giurisdizionale, incide anche sulla distribuzione dell’onere della prova. Infatti è ben possibile per il ricorrente dimostrare l’inattendibilità scientifica dell’opzione prescelta dall’amministrazione, ma tale prova dovrà essere data con un’attendibilità maggiore e prevalente, atteso che, - ed è questo un ulteriore passaggio di rilievo della pronuncia – a fronte di “opinioni divergenti, tutte parimenti argomentabili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito […] della competenza ad adottare decisioni collettive”.
Nel caso di specie il giudice di secondo grado ha reputato la motivazione del provvedimento impugnato priva di “qualsiasi profilo di illogicità o di travisamento dei fatti”, pur se fondata su elementi tecnicamente opinabili nel merito. Tale determinazione è stata ritenuta prevalente rispetto alla relazione di parte la quale, pur plausibile e diversamente argomentata, risultava comunque priva di indizi circa la erroneità logica e di fatto della determinazione ministeriale.
In altri termini, ben diversa è una valutazione scorretta rispetto ad un giudizio opinabile, ma comunque fondata sulla corretta applicazione di una disciplina tecnica. Solo la prima richiede un sindacato giurisdizionale che si svolga secondo modalità non superficiali e con strumenti che consentano di giungere ad una piena conoscenza della situazione di fatto.
In tal modo ciò che rimane fuori dal perimetro della cognizione giurisdizionale attiene solo ai profili di opportunità e di convenienza della scelta amministrativa tra le diverse soluzioni tecniche possibili, mentre l’indagine sui presupposti di fatto del provvedimento, anche in presenza di scelte tecniche complesse, rientra nella sfera di controllo giurisdizionale, con conseguente piena operatività del principio di effettività della tutela.
Rimane tuttavia la difficoltà di individuare un confine certo tra valutazione sui presupposti di fatto (pienamente sindacabile) e scelta tecnico-discrezionale che rimane confinata nel merito. Infatti spesso la valutazione tecnica più che costituire presupposto della scelta è manifestazione di volontà essa stessa. Tuttavia l’arretramento degli spazi riservati dell’azione amministrativa, lasciando maggior margine all’attività di verifica giurisdizionale, consente un ampliamento qualitativo della tutela delle situazioni giuridiche soggettive dei privati.
Sezione: Consiglio di Stato
(Cons. St., sez. VI, 9 maggio 2023, n. 4686)
stralcio a cura di Davide Gambetta
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