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Ambiente stressogeno è idoneo di per sé ad integrare la fattispecie di mobbing lavorativo

Roberto Di Giacomo

La presente vicenda origina dal rigetto, da parte della Corte d’Appello di Bologna, della domanda di gravame proposta da una dipendente del Ministero dell’istruzione, nella specie una docente, avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Forlì, pronunciata a seguito della domanda della lavoratrice, diretta ad ottenere il risarcimento del danno a causa delle vessazioni subite dai colleghi e dai superiori, attuate nell’ambito di un clima lavorativo definito “difficile e degradante”. Il Giudice di primo grado, ritenendo «generiche le allegazioni sulla persecutorietà della condotta di colleghi e superiori» ed insussistente la prova inerente le circostanze del trasferimento per incompatibilità ambientale della lavoratrice, prima concesso e poi annullato, sul presupposto che le difficoltà relazionali fossero imputabili anche alla lavoratrice (ciò confermato anche dalle stesse risultanze testimoniali), sanzionata disciplinarmente tre volte, ne disconosceva il risarcimento del danno.

La Corte territoriale motivava tale rigetto richiamandosi  alla giurisprudenza di legittimità relativa al mobbing ed allo straining, considerando generiche le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo in relazione alla persecutorietà ed alla continuità della condotta posta in essere dai colleghi e dai superiori, nonché insussistente la relativa prova, rilevando, altresì, che dalla sentenza del Tribunale di Forlì emergeva il mancato assolvimento, da parte del summenzionato Ministero, dell'onere probatorio relativo alla sussistenza delle ragioni che legittimassero il trasferimento per incompatibilità ambientale della lavoratrice, successivamente annullato. Inoltre, anche in considerazione di quanto risultava dalla prova testimoniale espletata nel medesimo giudizio, la stessa Corte affermava che le difficoltà relazionali fossero imputabili anche alla condotta posta in essere dalla stessa docente, evidenziando che, mentre una prima sanzione disciplinare ad essa irrogata era stata annullata a causa di vizi meramente procedurali, le altre due di esse erano state addirittura confermate.

Dunque, avverso il provvedimento pronunciato dalla suddetta Corte d’Appello, la docente de qua proponeva ricorso per Cassazione, basato su tre motivi, a cui resisteva il Ministero dell’Istruzione, con controricorso, illustrato da memoria.

Con il primo motivo di ricorso denunciava la violazione, ovvero la falsa applicazione, degli artt. 2,3,4,32 e 35 Cost., nonché degli artt. 2087 e 2049 c.c. e 115 c.p.c., in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., deducendo la genericità delle allegazioni relative alla condotta persecutoria posta in essere dai colleghi e dai superiori, nonché l’insussistenza della relativa prova.

Attraverso tale motivo di ricorso, essa rimarcava la non genericità delle condotte persecutorie descritte nel ricorso introduttivo, sottolineando la relativa reiterazione nel tempo da parte del dirigente scolastico, posta in essere attraverso comportamenti di carattere discriminatorio e persecutorio connotati da caratteri di ostilità, da cui conseguivano continue mortificazioni ed una conseguente emarginazione nell’ambito dell’ambiente di lavoro, le quali causavano effetti diretti di carattere lesivo dell’equilibrio psicofisico della stessa ricorrente, incidenti in modo pregnante sull’espressione della relativa personalità.

Con il secondo motivo di ricorso, essa denunciava la violazione ovvero la falsa applicazione degli artt. 2,3,4,32 e 35 Cost, nonché degli artt. 2087 e 2049 c.c. e 115 c.p.c. in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., ponendo in rilievo che la sentenza di primo grado del Tribunale di Forlì aveva dichiarato l'illegittimità del proprio trasferimento per incompatibilità ambientale, disposto dal dirigente scolastico nell’anno 2005, lamentando la mancata considerazione, da parte della Corte d’Appello, della interezza delle argomentazioni ivi poste in essere, ovvero i difetti di logicità e correttezza della sentenza emessa dalla Corte territoriale, suffragata dal presupposto (a suo dire erroneo) del proprio coinvolgimento nell’ambito delle condotte conflittuali realizzate, in contrasto con quanto statuito dalla sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Forlì.

Con il terzo motivo di ricorso, infine, denunciava la violazione ovvero la falsa applicazione degli artt. 2,3,4,32 e 35 Cost, nonché degli artt. 2087 e 2049 c.c. e 115 c.p.c. in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., rimarcando che il Giudice di secondo grado aveva considerato generiche ed irrilevanti le proprie richieste istruttorie, nonostante contenessero riferimenti spazio-temporali molto precisi e fossero dirette a dimostrare il prolungarsi delle tensioni, delle ostilità e delle conflittualità già precedentemente sorte nel contesto lavorativo in cui essa era inserita, evidenziando, altresì, la nullità della sentenza impugnata per manifesta illogicità, in quanto la Corte d’Appello aveva rigettato la domanda senza corredarla da alcuna valutazione relativa ai principi ed alle regole dettate in tema di disponibilità delle prove.

La Suprema Corte dichiarava, pertanto, il ricorso fondato sostenendo che, per proprio consolidato orientamento, la nozione di mobbing (così come quella di straining, ovvero “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, attuata appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che, oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante, in cui la vittima si trova in posizione di persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer). Dunque, è configurabile laddove siano posti in essere comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche laddove manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164); è una nozione di tipo medico-legale, non possedente alcuna autonoma rilevanza ai fini giuridici, rivolta unicamente ad identificare le condotte che si pongono in contrasto con l’art. 2087 c.c., nonché con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (cfr. ex multis Cass. n. 3291/2016 e Cass. n. 32257/2019).

Pertanto, alla stregua degli orientamenti consolidatisi presso la stessa Corte, il mobbing lavorativo risulterebbe configurabile laddove sussistano unitamente un elemento oggettivo, costituito dalla reiterata pluralità di comportamenti pregiudizievoli, ricorrenti nell’ambito del rapporto di lavoro, nonché un elemento soggettivo, costituito dal fine persecutorio nei confronti della vittima (cfr. ex multis Cass. 21 maggio 2018, n. 12437 e Cass. 10 novembre 2017, n. 26684) avulso da qualsiasi valutazione circa l’illegittimità intrinseca di ciascuna condotta ed a prescindere da essa, allorché la stessa intenzionalità delle singole condotte, anche se astrattamente legittime laddove singolarmente considerate, è in grado di permearle di connotazione illecita, in quanto la causazione, di carattere intenzionale, di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro ovvero di un altro lavoratore, costituisce chiara violazione dell’art. 2087 c.c. e, di conseguenza, fonte di responsabilità contrattuale, ancor più se attuata con dolo, accompagnata dai conseguenti ulteriori effetti di cui all’art. 1225 c.c.

La Suprema Corte illustrava, inoltre, con ulteriore chiarezza, che un ambiente lavorativo qualificabile come stressogeno, “è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell'art. 2087 cod. civ. (cfr. ex multis Cass. n. 3692/2023 e Cass. nn. 33639/2022, 33428/2022, 31514/2022), affermando, altresì, che ai fini dell’applicazione dell’art. 2087 c.c. è necessario fare riferimento alla normativa comunitaria ed internazionale, ovvero alle pronunce delle due Corti europee centrali, la CGUE e la Corte EDU, ciò dettato dalla necessità di effettuare un bilanciamento tra il diritto al lavoro ed il diritto alla salute del dipendente (artt. 4 e 32 Cost.) da un lato, e la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro privato (art. 41 cost.), ossia, per quanto concerne il datore di lavoro pubblico, le esigenze organizzative ed i limiti di spesa, dall’altro. L’elemento cardine di quanto rappresentato dalla Corte, dunque, è incentrato sulla definizione di salute alla stregua di uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” (in origine riportata nel Preambolo della Costituzione dell’OMS, altrimenti detta WHO, successivamente riprodotta nell’art. 2, comma 1, lett. o) del D. Lgs 9 aprile 2008, n. 81) e, dunque, non di “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”.

La Suprema Corte, di conseguenza, accoglieva il ricorso e cassava la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Bologna, concludendo per la non conformità della sentenza impugnata ai summenzionati principi, laddove riconduceva le difficoltà relazionali altresì alla condotta della docente ricorrente, senza neppure considerare che il c.d. “ambiente stressogeno” è configurabile alla stregua di un fatto ingiusto, in grado di condurre al riesame di tutte le altre condotte datoriali configurate quali vessatorie, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c., anche in assenza di qualsivoglia accertamento circa l’intento persecutorio diretto ad unificare tutte le condotte denunciate (a differenza di quanto specificamente richiesto in relazione al solo mobbing), sebbene apparentemente lecite ovvero meramente episodiche, ovvero laddove rilevava l’annullamento del provvedimento di trasferimento della lavoratrice per motivi di incompatibilità ambientale, nonché l’annullamento delle due sanzioni disciplinari ad essa irrogate, senza procedere ad una precisa e completa ricostruzione dei fatti ovvero senza esaminare le singole condotte nel contesto complessivo.

Argomento: Del lavoro
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Civ., Sez. Lav., 07 giugno 2024, n. 15957)

Stralcio a cura di Giorgio Potenza

“[…] un "ambiente lavorativo stressogeno" è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell'art. 2087 cod. civ. (vedi, tra le altre: Cass. 7 febbraio 2023 n. 3692 e nello stesso senso: Cass. nn. 33639/2022, 33428/2022, 31514/2022). Si è inoltre affermato che per l'applicazione dell'art. 2087 cod. civ. si deve fare riferimento alla normativa internazionale (soprattutto Convenzioni ONU, OIL e CEDU) e UE e, quindi, alle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU) e che tale applicazione è caratterizzata dalla necessità di operare un bilanciamento tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente (art. 4 e 32 Cost.) e la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro privato (art. 41 Cost.) ovvero per il dato di lavoro pubblico le esigenze organizzative e i limiti di spesa. L'elemento di base di questa operazione è rappresentato dalla adozione come definizione di salute non è quella di "semplice assenza dello stato di malattia o di infermità", ma quella di "stato di completo benessere fisico, mentale e sociale" originariamente contenuta nel Preambolo della Costituzione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), cui si riferiscono tutte le Carte internazionali in materia - a partire dalla importante Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità - e che è stata espressamente riprodotta nell'art. 2, comma 1, lettera o) del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81.”.

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