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Il coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario può usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso
Fabio Trolli
Una recente pronuncia della Corte di cassazione da continuità a un orientamento, oramai sedimentato in giurisprudenza, con cui si precisano i requisiti affinché un coerede possa acquistare un bene parte della massa comune per usucapione.
La Suprema Corte conferma la pronuncia della Corte d’Appello che, oltre a rilevare l’incertezza dell’effettiva data di decorrenza del possesso del bene, ha rigettato la domanda di usucapione del bene immobile motivando come, trattandosi di bene in comproprietà e compossesso tra i germani del de cuius, gli attori avrebbero mancato di dimostrare un mutamento del possesso da uti condominus a uti dominus. Si richiama, quindi, la consolidata giurisprudenza per cui il coerede che, dopo la morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede con animo proprio ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività. Ciò avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere con pienezza della proprietà del bene e non, invece, solamente la sua pars quota.
A tale riguardo, precisano i giudici, non pare univocamente significativo che il coerede abbia utilizzato ed amministrato il bene ereditario e che i coeredi si siano astenuti da analoghe attività, sussistendo la presunzione iuris tantum che abbia agito nella qualità e operato anche nell’interesse anche degli altri coeredi (facendosi richiamo alla Cass., 16 gennaio 2019, n. 966; Cass., 4 maggio 2018, n. 10734; Cass., 25 marzo 2009, n. 7221).
La sentenza offre l’occasione per riflettere sul possesso del coerede e di svolgere qualche utile considerazione circa il mutamento della situazione di fatto che viene invocata dalla giurisprudenza. Ciò in quanto non è sempre agevole, dal punto di visto concreto, comprendere la linea di demarcazione fra interversione del possesso ed estensione del dominio esclusivo del comproprietario.
Conviene prendere le mosse dal possesso utile per l’usucapione e ricordare che la disciplina del Codice civile risulti essere in linea con la tradizione romanistica, richiamando la necessità che il possesso sia continuo (art. 1165 ss. cod. civ.), non violento e non clandestino (art. 1163 cod. civ.). Vi può essere o meno la consapevolezza dell’altrui titolarità del diritto reale, da cui discende la buona fede o la mala fede con cui si possiede il bene. Seguendo il dettato dell’art. 1164 cod. civ., nel caso in cui una persona abbia già il possesso corrispondente all’esercizio di un diritto reale su cosa altrui, questi non può usucapire la proprietà della cosa stessa se il titolo del suo possesso non è mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il diritto del proprietario. Il legislatore precisa poi che il tempo necessario per l’usucapione decorra dalla data in cui il titolo del possesso è mutato.
La norma appena riportata, che disciplina l’interversione del possesso, va coordinata con quella racchiusa nell’art. 1141, secondo comma, cod. civ. Quest’ultima, infatti, disciplina il mutamento della detenzione in possesso, precisando che, anche in detta fattispecie, ciò non possa avvenire se non per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione fatta dal detentore contro il possessore. Si aggiunge, poi, che ciò valga anche per i successori a titolo universale.
La dottrina e la giurisprudenza, sulla scorta della Relazione ministeriale al Codice civile, leggono le due norme in consonanza fra loro e affermano, concordemente, che per l’interversione del possesso non basti un semplice atto di volizione interna, ma occorra una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che chi esercita il potere di fatto sulla cosa abbia cessato di farlo in nome altrui (segnatamente per la detenzione) ed abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio (fra le tante, si rinvia alla Cass., 5 febbraio 2016, n. 26327).
Assecondando la disciplina positiva e l’interpretazione della giurisprudenza, pare potersi sostenere che il legislatore, pur disciplinando l’usucapione per evidenti motivi storici e per consentire una più agevole circolazione della ricchezza, veda con sfavore un mutamento repentino della situazione di fatto a danno del proprietario, che deve essere posto in condizione di poter far valere il proprio diritto dominicale verso coloro che vi attentino, o, quantomeno, richieda un bilanciamento di valori.
Occorre ora considerare se detto principio possa estendersi anche al di fuori dei casi contemplati, nello specifico, dagli artt. 1141, secondo comma, e 1164 cod. civ. Il punto nodale, sollevato dalla sentenza commentata, riguarda la ricostruzione della disciplina circa l’usucapione del bene comune da parte di un comproprietario. Il tema tocca una problematica di ordine generale, inerente ai titoli di possesso, e dovrebbe essere indagato a fondo considerando se, e in che misura, possa ammettersi una situazione di possesso pro-quota, qualitativamente diverso dal possesso dell’intero: vale a dire se, a fianco delle situazioni prese in considerazione dal legislatore, quali il possesso del (pieno) proprietario, la detenzione (semplice o qualificata) e il possesso del titolare del diritto reale di godimento, possa aversi un possesso del comproprietario.
Il punto è delicato, ma per ora basti limitarsi a considerare la disciplina della comunione in generale. Scorrendo le norme che il legislatore prescrive per regolare la posizione del comproprietario, si trae anzitutto il principio per cui, come è noto, il diritto del comproprietario è limitato a quanto corrisponde alla sua quota di titolarità (art. 1101 cod. civ.). La quota non è altro che una proporzione del diritto del comproprietario, espresso in termini numerici. Essa, però, è una nozione quantitativa e non offre, al contempo, un indice qualitativo del diritto del comproprietario.
Il potere di fatto sul bene comune, invece, si trae dalla lettura delle norme seguenti e, segnatamente, dai due commi dell’art. 1102 e dal primo comma dell’art.1103 cod. civ. Da una lettura coordinata delle due disposizioni si evince che il comproprietario ha il possesso sul bene comune, ma nei limiti dell’utilizzo che ne possono fare gli altri comproprietari (art. 1102, primo comma, cod. civ.); di conseguenza, può cedere ad altri il godimento della cosa, ma nei limiti della quota (art. 1103, primo comma, cod. civ.). È significativa la norma affidata al secondo comma dell’art. 1102 cod. civ. ove il legislatore afferma che il partecipante non possa estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno agli altri, salvo che non compia atti idonei a mutare il titolo del possesso.
Fermandosi ad analizzare la lettera della norma, il legislatore discorre di mutamento del «titolo del possesso». Ciò conferma che il comproprietario è possessore del bene, ma che detto possesso risulti fondato sul titolo che giustifica il suo diritto sulla quota. La lettura della norma però suggerisce anche un altro elemento, che risulta centrale nel ragionamento della Suprema Corte, ossia che per mutare il titolo del possesso il comproprietario debba compiere «atti idonei»: formula, questa, diversa da quella adottata negli artt. 1141, secondo comma, e 1164 cod. civ., in cui il titolo può mutare per fatto del terzo o per opposizione nei confronti del possessore. Ciò pare segnare una differenza qualitativa, o di intensità, dell’atteggiamento che deve assumere il comproprietario rispetto a quello che il detentore o il possessore di un diritto limitato di godimento deve avere per usucapire il bene posseduto.
Per questo motivo, la sentenza in commento, dando continuità a un orientamento giurisprudenziale sedimentato, afferma che non occorra un’interversione del possesso, ma una inequivoca volontà, manifestata con segni esteriori, di possedere il bene in via esclusiva. Non basterebbe, in particolare, l’esercizio dei diritti del comproprietario sul bene comune, bensì una qualche forma di estensione del possesso all’intero diritto di proprietà.
Certo è che, lo si è detto, riprendendo la disciplina della comunione, pare poco agevole rinvenire un confine ben definito fra l’opposizione che fondi il mutamento della detenzione in possesso e l’estensione del diritto del comproprietario. Difatti, andrebbero esclusi i meri atti gestori, poiché tutti i partecipanti alla comunione hanno diritto di amministrare la cosa comune (art. 1105 cod. civ.), mentre risulterebbero illegittimi gli atti di innovazione o di straordinaria amministrazione del bene decisi unilateralmente dal singolo comproprietario (art. 1108 cod. civ.). L’estensione del diritto del comproprietario, quindi, potrebbe consistere nel compimento di più atti di amministrazione straordinaria, senza che gli altri comproprietari si curino di opporsi alla loro realizzazione, trascurando di far valere le proprie ragioni. Il che non potrebbe accadere per il detentore o il possessore di un diritto limitato di godimento, il quale col decorso del tempo perderebbe solamente il proprio diritto di credito senza che ciò possa integrare gli estremi dell’opposizione nei confronti del proprietario.
Questa soluzione pare coerente anche con la ratio che ispira il sistema codicistico. Difatti, si è posto in luce che il legislatore ponga degli stretti limiti all’interversione del possesso, bilanciando le esigenze di circolazione della ricchezza con la salvaguardia del diritto di proprietà. Rispetto alla comproprietà, invece, si deve aggiungere un dato ulteriore starebbe nello sfavore verso la situazione di contitolarità dei diritti reali, che è reputata dal legislatore necessariamente transitoria (art. 1111, primo comma, cod. civ.). Pare logico, quindi, che nel favorire la concentrazione della proprietà in capo a una sola persona, discenda anche una maggiore tolleranza verso l’estensione del possesso, giustificando il minor rigore con cui si esprime il secondo comma dell’art. 1102 cod. civ. rispetto agli artt. 1141, secondo comma, e 1164 cod. civ.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. VI - 2, 18 luglio 2022, n. 22504)
stralcio a cura di Fabrizia Rumma
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