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Il diritto al silenzio dell´indagato o dell´imputato, costituzionalmente garantito dall´art. 24 Cost., si estende anche alle circostanze di cui all´art. 21 disp. att. c.p.p.
Riccardo Di Stefano
Con sentenza n. 111 del 2023, la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 64 comma 3 c.p.p., «nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21» disp. att. c.p.p. e dell’art. 495 c.p., «nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni».
La questione di costituzionalità è stata sollevata dalla prima Sezione penale del Tribunale di Firenze, chiamata a valutare la sussistenza del reato di cui all’art. 495 c.p. nel caso in cui l’agente, sottoposto a procedure di identificazione, elezione di domicilio e nomina del difensore ai sensi dell’art. 66 c.p.p., dichiari falsamente alla p.g. di non avere riportato condanne penali in Italia.
Nell’esaminare il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, il rimettente osserva come – in base al combinato disposto degli artt. 66 c.p.p. e 21 disp. att. c.p.p. – nel primo atto del procedimento penale l’imputato (o l’indagato) non debba solamente essere invitato a dichiarare le proprie generalità e quant’altro può valere a identificarlo, ma debba altresì fornire informazioni in merito alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p. (soprannome, pseudonimo, condizioni patrimoniali, carichi pendenti, condanne definitive, ecc.).
Secondo il costante orientamento della Corte di cassazione, l’art. 495 c.p. è considerato applicabile anche alle false dichiarazioni relative alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p., le quali non devono essere precedute dagli avvisi previsti dall’art. 64 comma 3 c.p.p. per due ordini di motivi. Anzitutto, perché l’art. 64 comma 3 lett. b) c.p.p. fa espressamente salvo “quanto disposto dall'articolo 66, comma 1”, a sua volta richiamato dall’art. 21 disp. att. c.p.p.; in secondo luogo, perché le domande sulle circostanze ivi previste «si riferirebbero all’identità e allo stato civile e giuridico dell’imputato, e non al fatto di cui egli sia accusato».
Nella prospettiva del giudice a quo un simile assetto contrasterebbe, in via principale, con gli artt. 3 e 24 Cost., dal momento che il diritto al silenzio deve essere riconosciuto con riferimento ad ogni domanda rivolta all’indagato o all’imputato idonea a produrre un pregiudizio nei suoi confronti. In questa categoria rientrerebbero anche le domande sulle circostanze indicate dall’art. 21 disp. att. c.p.p., perché le relative risposte possono essere utilizzate dal giudice «a pregiudizio della persona indagata o imputata», sia in sede cautelare che di merito. A titolo esemplificativo, i precedenti penali rappresentano al contempo elementi costitutivi della contravvenzione di cui all’art. 707 c.p., presupposti per la contestazione della circostanza aggravante della recidiva e potenziali ostacoli alla concessione di benefici penitenziari.
L’impostazione del diritto vivente, che distingue tra domande preliminari all’interrogatorio, non coperte dal «diritto di mentire» e domande rientranti nell’interrogatorio vero e proprio, rispetto alle quali «l’imputato potrebbe rispondere liberamente», viene tacciata di un eccessivo formalismo, in contrasto con il dettato costituzionale.
Di conseguenza, il giudice rimettente reputa opportuno sollevare, in primo luogo, questione di costituzionalità dell’art. 495 c.p., «nella parte in cui si applica alle false dichiarazioni rese nell’ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta ad indagini o imputata in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p.», per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione.
In subordine, laddove «non fosse ritenuto irragionevole negare alla persona sottoposta a indagini o all’imputato la facoltà di mentire», viene censurata la legittimità costituzionale dell’art. 64 comma 3 c.p.p., «nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati nei confronti della persona sottoposta alle indagini/imputata prima di qualunque tipo di audizione della stessa nell’ambito del procedimento penale» e dell’art. 495 c.p., «nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per il reato ivi previsto in caso di false dichiarazioni – in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p. – rese nell’ambito di un procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rispondere», per contrasto con il solo art. 24 della Costituzione.
Le questioni sottoposte alla Corte costituzionale ruotano attorno all’estensione ed al conseguenze del riconoscimento del diritto al silenzio della persona sottoposta a indagini o imputata nel corso del procedimento penale. Sotto il primo punto di vista, il collegio è chiamato stabilire se tale diritto «copra non solo le circostanze attinenti al fatto del quale la persona sia sospettata o accusata, ma anche quelle […] che riguardano la sua persona, al di fuori delle generalità in senso stretto». Sotto il secondo punto di vista – in caso di risposta affermativa al precedente quesito – occorre valutare la ragionevolezza di un sistema in cui, da un lato, viene esclusa la punibilità delle «dichiarazioni di chi, sospettato o imputato di un reato, abbia detto il falso alle autorità nel tentativo di difendersi» in ordine al fatto di reato e, dall’altro, l’esclusione della punibilità non si estenda alle dichiarazioni mendaci «relative alle circostanze personali del suo possibile autore».
La prima questione viene risolta positivamente, in adesione alla prospettazione del giudice a quo e prendendo come punto di riferimento una nozione internazionalistica di “diritto al silenzio”, inteso come diritto, spettante agli indagati o imputati di un reato, “a non essere costretto a deporre contro sé stesso o a confessarsi colpevole” (art. 14, par. 3, lett. g Patto internazionale sui diritti civili e politici). In sostanza, come affermato dalla Corte di giustizia con la sentenza D. B. c. Consob (2 febbraio 2021), tale diritto viene in rilievo quando vengono poste domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, possano essere successivamente utilizzate contro l’indagato o l’imputato nell’ambito del procedimento o del processo penale, e siano comunque suscettibili di avere un «impatto sulla condanna o sulla sanzione»[1] che potrebbe essere inflitta.
Ciò avviene anche in relazione alle domande formulate ai sensi dell’art. 21 disp. att. c.p.p., le cui risposte possono generare conseguenze pregiudizievoli «nel corso del procedimento penale, ovvero ai fini della condanna e della commisurazione della pena». In tal caso, il diritto di difesa della persona indagata o imputata non è adeguatamente tutelato, in un’ottica di effettività, dalla riconosciuta possibilità di rifiutarsi di «fornire le notizie, che in proposito gli vengano richieste, senza incorrere in alcuna responsabilità penale»[2], a differenza di quanto accade per il rifiuto (sanzionato penalmente) di fornire le proprie strette generalità.
È infatti necessario, in sintonia con la pronuncia Miranda c. Arizona della Corte Suprema degli Stati Uniti (1966), prevedere «idonei strumenti procedurali» per controbilanciare la pressione psicologica dell’interrogatorio, consistenti negli avvisi (“warnings”) previsti dall’art. 64 comma 3 del codice di procedura penale.
L’esigenza di garantire una tutela più pregnante del diritto al silenzio, tuttavia, non determina l’irragionevolezza della punibilità – ai sensi dell’art. 495 c.p. – di chi renda false dichiarazioni in risposta alle domande contemplate dall’art. 21 disp att. c.p.p., perché non sussiste «una perfetta sovrapponibilità tra le false dichiarazioni relative al fatto di reato – ritenute in via generale non penalmente rilevanti dal legislatore – e quelle relative alle circostanze personali del sospetto reo».
Il diritto al silenzio non presenta dunque una disciplina unitaria, a differenza di quanto prospettato dal rimettente, e la scelta di una differenziazione va ricondotta all’insindacabile discrezionalità del legislatore.
Viene rigettata, in altri termini, la questione principale di costituzionalità e accolta quella subordinata, per una duplice ragione. Anzitutto, perché l’accoglimento della questione principale avrebbe, come detto, un effetto «eccedente lo scopo di assicurare la conformità a Costituzione del vigente assetto normativo e giurisprudenziale». In secondo luogo, tale rimedio «sarebbe, per altro verso, inadeguato rispetto a tale scopo, intervenendo soltanto sul versante della punibilità delle false dichiarazioni, ma non su quello – che ne costituisce un prius dal punto di vista tanto logico quanto cronologico – dell’imposizione alle autorità procedenti dell’obbligo di avvisare la persona interrogata della propria facoltà di non rispondere anche alle domande di cui all’art. 21», che costituisce il fulcro di una tutela effettiva dal punto di vista costituzionale del diritto al silenzio.
[1] Corte di giustizia dell’Unione Europea, 2 febbraio 2021, D. B. c. Consob, causa C-481/19, in Federalismi.it, 22 settembre 2021, con nota di Coduti D., Il diritto al silenzio nell’intreccio tra diritto nazionale, sovranazionale e internazionale: il caso D.B. c. CONSOB.
[2] Corte cost., 6 maggio 1976, n. 108, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1977, p. 635 e ss., con nota di Giostra G., L’imputato che mente o tace sui suoi precedenti penali.
Sezione: Corte Costituzionale
(C. Cost., 5 giugno 2023, n. 111)
Stralcio a cura di Giulio Baffa
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