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Apertura del fallimento e decorrenza del termine per la riassunzione del giudizio pendente
Fabrizio Cesareo
Le Sezioni Unite della Cassazione civile, nella sentenza del 7 maggio 2021, n. 12154, ripercorrono l’annosa questione dell’individuazione del dies a quo per la riassunzione del processo interrotto conseguente a fallimento della parte costituita. In tal guisa, oltre a ripercorrere i pronunciamenti giurisprudenziali sul tema ci si soffermerà sul potere-dovere del giudice in merito alla formulazione dell’ordinanza che dichiara fallimento.
La società omissis, titolare di un conto corrente bancario, conviene in giudizio la banca omissis, al fine di chiederne la condanna alla ripetizione di interessi usurari ed anatocistici. I Giudici senesi, con sentenza n. 627/2009, ritenevano fondata la domanda di ripetizione di indebito, con la conseguenza della condanna dell’istituto di credito alla restituzione di una determinata somma, oltre gli interessi legali; la sentenza de quo veniva poi sottoposta a mezzo di gravame da parte della banca e la società resisteva chiedendone il rigetto. Conseguentemente, il 16 aprile 2014, i Giudici ascolani dichiaravano il fallimento della società anzidetta; in ossequio al rispetto delle norme relative all’avvio della liquidazione giudiziale, il 3 maggio 2014 il curatore rendeva noto alla banca l’avviso di cui all’art. 92 r.d. n. 267/1952 e il 10 giugno 2014 veniva ritualmente trasmessa la domanda di insinuazione al passivo. Nell’udienza del 9 decembre 2014 veniva dichiarato interrotto il processo per intervenuto fallimento della parte appellata. Orbene, la banca, attraverso ricorso depositato il 29 aprile 2015 e notificato al curatore il 25 giugno 2015, provvedeva alla riassunzione di cui all’art. 305 c.p.c.; il curatore si costituiva in giudizio secondo quanto previsto dall’art. 347 c.p.c., constatando pregiudizialmente l’estinzione del processo a causa della tardività della riassunzione.
Il giudizio d’appello ha condiviso l'eccezione di intempestività della citazione in riassunzione, ritenendo principalmente che: a) l'apertura del fallimento, ai sensi della l.fall., art. 43, comma 3, determina l'interruzione del processo in modo automatico, cioè prescindendo dalla dichiarazione del procuratore della parte costituita; b) l’individuazione del dies a quo, da cui far decorrere il termine per la riassunzione in capo alla parte non colpita dall'evento interruttivo, coincide con la effettiva conoscenza legale dello stesso e, nella specie, troverebbe applicazione il regime trimestrale dell'art. 305 c.p.c., come novellato dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 14, in ragione della introduzione dell'appello dopo l'entrata in vigore della riforma; c) non risulta essere stata specificamente contestata dalla banca la maturata conoscenza legale del fallimento della società alla data dell'avviso, avendo l'appellante circoscritto l'opposizione all'eccezione della curatela ad un rilievo di inammissibile estensione della domanda, senza prendere meglio posizione sul punto, così potendosi sostenere che, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., la predetta conoscenza risultava altresì nello stesso processo in cui la relativa eccezione è stata fatta valere; d) in ordine a quanto già richiamato dall’art. 305 c.p.c. il ricorso risulta tardivo, dunque inammissibile.
La banca, contro la sentenza risultante dal gravame della Corte di appello di Firenze, proponeva ricorso per Cassazione, di converso la società fallita resisteva con controricorso.
Quattro sono i motivi di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.: a) errata o falsa applicazione della l.fall., art. 43, comma 3, in relazione agli artt. 3,24 e 111 Cost., contestando che la comunicazione dell'avviso effettuata dal curatore alla banca, nella qualità di creditrice, e non invece al suo difensore, integri gli estremi della conoscenza legale, da cui far decorrere i termini per la riassunzione (peraltro pari a 6 e non a 3 mesi); b) violazione o falsa applicazione dell'art. 305 c.p.c., come modificato dalla l. n. 69 del 2009, art. 46, comma 14, avendo errato la corte a non considerare che il termine di tre mesi presente nella nuova formulazione dell'art. 305 cit. opera solo per i giudizi instaurati in primo grado dopo il 4 luglio 2009 e che, ai fini della tempestività della riassunzione, il riferimento è al momento del deposito del ricorso proposto dalla parte interessata a riattivare il procedimento e non all'atto di notifica del ricorso alla curatela; c) errata o falsa applicazione dell'art. 11 preleggi e dell'art. 24 Cost., con riferimento al testo della l.fall., art. 43, comma 3, dolendosi la banca dell'affermazione del giudice distrettuale secondo cui la citata norma sarebbe di immediata applicazione, dunque idonea a regolamentare la discussa interruzione, nonostante il relativo giudizio civile sia stato introdotto nel 2002, dunque prima della già menzionata disposizione novellatrice del 2006; d) errata o falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c., laddove la Corte ha equivocato la condotta della banca che, non contestando il ricevimento dell'avviso del curatore, quale circostanza di fatto, ha comunque ed in realtà avversato il significato giuridico che da essa se ne voleva trarre, senza dunque alcuna acquiescenza all'eccepita estinzione.
Ne consegue che rigettato il terzo motivo, il primo motivo è fondato, oltre al secondo con assorbimento del quarto, stante l'inidoneità della comunicazione, ex art. 92 l.fall., dell'avviso al creditore e non contenente uno specifico riferimento al processo in cui era parte il fallito, a costituire dies a quo per la riassunzione del medesimo, integrando il relativo termine, invece, la dichiarazione giudiziale d'interruzione pronunciata in udienza e, nella fattispecie, risultando tempestivo l'atto di riassunzione; la conclusione viene dunque assunta sulla base del principio reso a soluzione del contrasto dedotto con l'ordinanza, della Sezione I, del 12 ottobre 2020, n. 21961.
La motivazione in diritto del provvedimento in esame muove dalla novella apportata dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 alla disciplina dei rapporti processuali del soggetto dichiarato fallito: complesso normativo che si pone l’obiettivo di creare una consequenzialità tra dichiarazione di fallimento e interruzione del processo, a differenza del previgente sistema carente di una disciplina a sé stante in materia di interruzione del processo per fallimento di uno dei litisconsorti e rimesso all’iniziativa di parte. Ordunque, l’apertura della liquidazione giudiziale determina l’interruzione di diritto del processo, evitando così che lo stesso possa essere interrotto a distanza di tempo qualora le parti informino formalmente il giudice, ex art. 300 c.p.c. Questo si esplica in un automatismo derivante dalla pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, nel combinato disposto dagli artt. 43, comma 3, e 16, comma 2, l.fall. e 133, comma 1, c.p.c.; meccanismo analogo a quanto previsto dagli artt. 299, comma 1, 300, comma 3, e 301, comma 1, c.p.c. Tre sarebbero, in tal senso, le conseguenze: a) l’inconsistenza delle dichiarazioni e notificazioni, ex art. 300 c.p.c.; b) la natura dichiarativa dell’ordinanza di interruzione del processo per liquidazione giudiziale del litisconsorte costituito; c) l’incapacità della predetta ordinanza a compromettere gli effetti generati dall’interruzione automatica di cui all’art. 43, comma 3, l.fall.
Di seguito all’iter sviluppato dalle Sezioni Unite di Piazza Cavour si pone l’attenzione infine sull’art. 143, comma 3, d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 nella parte specifica in cui dispone che il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre da quando l’interruzione viene dichiarata dal giudice.
In questo quadro sicuramente è degno di nota il percorso di costituzionalizzazione dell’art. 305 c.p.c., nelle ipotesi in cui l’interruzione nella fase procedimentale operi ope legis dal verificarsi dell’evento interruttivo. Un primo riflesso è costituito dal binomio degli artt. 301 c.p.c. e 24 Cost. sulla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 305 c.p.c., nell’assunto secondo il quale il termine per la prosecuzione o la riassunzione del processo decorreva dalla data dell’evento anziché dalla dichiarazione o dalla notificazione del medesimo[1]. Attraverso una pronuncia additiva della Consulta, invece, veniva stabilito il requisito della cd. conoscenza legale dell’evento interruttivo, rendendola di fatto una forma di tipo qualificato, vale dire la conoscenza maturata dalle parti in ordine a dichiarazioni e/o notificazioni. Principio ribadito dalla Corte costituzionale in merito al combinato di cui agli artt. 299 e 300, comma 3, c.p.c., sempre in riferimento all’interruzione automatica e relativamente al periodo in cui era previsto che il termine utile per la prosecuzione o per la riassunzione del processo interrotto decorreva dall’interruzione anziché dalla data in cui le parti ne abbiano avuto conoscenza[2]. Infine, nella sentenza interpretativa di rigetto pronunciata dalla Consulta, oggetto di analisi è stato il combinato di cui agli artt. 43, comma 3, l.fall., 3, 24, e 111 Cost.[3]. Percorso di costituzionalizzazione che ha poi però condotto ad un’unica ratio nell’individuare la decorrenza del termine di riassunzione.
Premessa la natura casistica dell’approccio degli Ermellini, gli stessi sottolineano come l’esigenza che la verifica della conoscenza del decorso del termine per la riassunzione debba essere ancorata a criteri quanto più possibili sicuri ed oggettivi, sicché da neutralizzare, per quanto possibile, l’elemento di criticità operativa derivante dall’avere il giudice delle leggi disancorato il termine per la riassunzione dal verificarsi dell’interruzione, così rendendolo mobile e variabile. Due le questioni contrapposte sul punto analizzate dalla Cassazione: da un lato il destinatario della conoscenza legale, cioè se possa ritenersi legalmente efficace la conoscenza dell’evento interruttivo in capo ad un soggetto diverso dal difensore del litisconsorte costituito; dall’altro predisporre un favor nei confronti del curatore. Difatti, al fine del decorso del termine per la riassunzione non è sufficiente la sola conoscenza, da parte del curatore fallimentare, dell’evento interruttivo rappresentato dalla dichiarazione di fallimento, ma è necessaria anche la conoscenza dello specifico giudizio sul quale detto effetto interruttivo è in concreto destinato ad operare. Quest’ultimo assunto può esplicarsi nella funzione di terzietà del curatore, vale a dire quella di estraneità ai rapporti processuali del fallito. DI fatto, tale conoscenza deve investire, non già la parte personalmente, ma il suo difensore, quale soggetto tecnico in grado di valutare gli effetti giuridici dell’evento medesimo e di capire se e da quale momento decorre il termine per riassumere il giudizio. Parte sostanziale che, quindi, in base a quanto appena espresso, si ritiene esclusa dalla cerchia di soggetti destinatari della conoscenza. Nel caso in cui, invece, il litisconsorte non fallito venga a conoscenza dell’evento interruttivo attraverso la comunicazione dell’avviso di cui all’art. 92 l.fall, ovvero mediante altro atto endo-processuale, o lo stesso sia assistito da un procuratore differente da quello che assiste la parte nel processo interessato dall’interruzione, la conoscenza può ritenersi acquisita soltanto nel momento in cui anche il secondo difensore acquisisce legale cognizione dell’evento medesimo, atteso che il singolo difensore non è tenuto a conoscere tutti i procedimenti che interessano la parte da lui rappresentata. Difformemente, nell’ipotesi in cui ci sia identità di difensori, la conoscenza legale del fatto interruttivo, intervenuta in altro processo, è idonea a far decorrere il termine per la riassunzione anche in relazione a distinti giudizi, pendenti tra le medesime parti, in cui la parte era patrocinata dallo stesso difensore colpito dal suddetto evento. In ordine ai diversi indirizzi interpretativi, alcuni dei quali più restrittivi[4], ciò che emerge è uno sguardo all’assetto normativo anteriore al d.lgs. n. 5/2006, che ben può riassumersi nel postulato secondo cui nel caso di dichiarazione di fallimento di una parte processuale, non è necessaria la declaratoria di interruzione ai fini della decorrenza del termine per riassumere, poiché la previsione di tale ulteriore adempimento vanificherebbe, nella sostanza, la previsione di automaticità prevista dall’art. 43 l.fall.
L’ultimo tassello fondamentale nella disamina di questa fattispecie è costituito dal cd. dovere di cooperazione del giudice alla celere definizione del processo interrotto, che fonda il suo costrutto nella seguente dicotomia: da un lato il potere di emanare d’ufficio l’ordinanza dichiarativa dell’interruzione, dall’altro la conoscenza officiosa di liquidazione giudiziale del litisconsorte costituito. La pronuncia giudiziale, difatti, se emancipata dalla mera sollecitazione o istanza di una parte costituita, mostra di dipendere dall’assetto organizzativo dell’ufficio giudiziario e dunque dal modo con cui possono essere raccolte o vi possono affluire le notizie del fallimento più che dalle sole iniziative dei suoi partecipi. Ciò che si auspica è l’attuazione di strumenti di raccolta delle relative informazioni che mettano strutturalmente i giudici nella condizione di rendere tempestivamente e anche d’ufficio la descritta dichiarazione. Aggiornamento e riorganizzazione degli uffici giudiziari che si stanno tentando di concretizzare mediante la cd. Riforma Cartabia, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 e con l’attuazione delle misure del PNRR.
[1] Si l. Corte Cost., 15 dicembre 1967, n. 139.
[2] Si v. Corte Cost., 6 luglio 1971, n. 159.
[3] Si l. Corte Cost., 21 gennaio 2010, n. 17.
[4] Sul punto si v. Cass. civ., Sez. II, sent. 16 dicembre 2019, n. 33157; Cass civ., Sez II, ord. 16 aprile 2019, n. 10594; Cass. civ., Sez. Lav., sent. 13 marzo 2013, n. 6331; Cass civ., Sez. VI, 29 maggio 2013, n. 13334; Cass civ., Sez. V, sent. 14 giugno 2019, n. 15996; Cass civ., Sez. VI, ord. 1° marzo 2017, n. 5288; Cass civ., Sez VI, ord. 27 febbraio 2018, n. 4519; Cass civ., Sez. III, sent. 30 novembre 2018, n. 31010.
Sezione: Sezioni Unite
(Cass. Civ., SS.UU., 7 maggio 2021, n. 12154)
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