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II “fatto accidentale” nel contratto di assicurazione alla luce della causa in concreto: opera per i fatti colposi ma non per quelli dolosi

Cecilia De Luca

Con l’ordinanza in commento la suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire che le clausole contenute in un contratto – nel caso di specie un contratto di assicurazione stipulato al fine di coprire i danni derivanti da spargimento di acqua causati da difetti strutturali dell’impianto fognario – devono essere interpretate alla luce dei criteri ermeneutici stabiliti dal Codice civile.

Nel caso di specie, l’attrice, nella qualità di mandataria dell’amministrazione dei beni immobili di (omissis), proprietaria dei locali venuti in rilievo nella fattispecie concreta, ha convenuto in giudizio avanti al Tribunale di Napoli il condominio sito in (omissis), al fine di ottenere il risarcimento dei danni occorsi ai locali in seguito alle infiltrazioni provenienti dall’impianto fognario a servizio di tale ultimo stabile nonché la condanna ad eseguire le opere necessarie per la definitiva loro eliminazione.

Il Tribunale ha autorizzato la chiamata in causa della compagnia assicurativa del condominio convenuto e, nella resistenza sia del convenuto sia della terza chiamata in causa, ha condannato il condominio convenuto ad eseguire le opere di ripristino indicate dalla c.t.u. espletata in corso di causa e ha condannato la compagnia assicurativa a pagare all’attrice un determinato importo.

Avverso tale sentenza è stato proposto appello dalla compagnia assicurativa. Il giudice di secondo grado ha affermato, relativamente ad uno dei motivi di gravame, che, sulla base delle risultanze dell’espletato accertamento tecnico, la garanzia dedotta in polizza era prevista per la sola rottura accidentale degli impianti e non poteva essere quindi estesa ai difetti a monte riconducibili alle stesse modalità o alla inidoneità dei materiali con cui l’impianto era stato realizzato.

Avverso tale sentenza è stato proposto ricorso per cassazione dal condominio, articolato in un unico motivo, con il quale si sottolinea l’erronea applicazione, ad opera del giudice, dei canoni ermeneutici affinché la clausola del contratto di assicurazione – e dunque il regolamento ivi contenuto – fosse adeguatamente interpretata.

Per quanto concerne i criteri ermeneutici da applicarsi al regolamento contrattuale in sede di interpretazione, del medesimo, questi sono contenuti negli articoli 1362-1371 del Codice civile, dai quali emerge lo scopo del legislatore di guidare l’interprete nel procedimento volto ad assegnare un significato univoco al regolamento contrattuale.

L’art. 1362, primo comma, c.c. prescrive all’interprete di non limitarsi al senso letterale delle parole ma di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti. Qui il legislatore pone un problema linguistico: il problema della polisemia.

Al fine di risolvere tale problema, con riferimento a un testo, che si presume, recante un significato giuridico, il legislatore indica un metodo ermeneutico: il metodo della comune intenzione delle parti; egli non addita la comune intenzione quale scopo, ma quale strumento dell’operazione interpretativa: lo scopo è quello di intendere il testo linguistico.

La scansione temporale del procedimento ermeneutico in due successivi “momenti” o “fasi” costituisce ancora oggi, nonostante alcuni tentativi di sovvertimento, un valido strumento metodologico nell’affrontare il problema dell’interpretazione contrattuale, e come tale è ancora ampiamente utilizzata da dottrina e giurisprudenza.

La prima fondamentale enunciazione dei principi di gerarchia delle regole legali di interpretazione si deve a Cesare Grassetti: la questione interpretativa viene da lui affrontata ponendo in primo piano l’osservanza degli strumenti e delle tecniche normative.

L’attività dell’interprete è suddivisa in due distinti momenti, cronologicamente successivi, cui corrispondono due differenti gruppi di norme. Ciascuno gruppo è formato da specifici canoni legali conoscitivi, cui l’interprete si deve attenere nel valutare il contratto sottoposto a esame. Il principio gerarchico, che informa l’attività interpretativa, non sta a indicare una primazia di rango tra i vari canoni ermeneutici, bensì una primazia cronologica, in base alla quale l’interprete applica per primi i criteri di cui agli artt. 1362-1365, per poi passare al secondo gruppo di norme, ex artt. 1367-1371 c.c., soltanto se e quando il primo non abbia condotto al risultato sperato.

Se primazia di rango c’è, essa devesi semmai ravvisare all’interno del primo gruppo, tra norma-principio di cu all’art. 1362, primo comma, c.c. e norme di secondo grado, ex artt. 1362, secondo comma, 1363, 1364, 1365 c.c., che quella svolgono e da quella mutuano il valore precettivo.

Seguendo il ragionamento di Grassetti sembrerebbe tuttavia di assistere, nel passaggio da uno stadio all’altro del processo ermeneutico, a un mutamento dello scopo dell’interpretazione, quasi che le due fasi dell’attività interpretativa abbiano due oggetti distinti: la prima sarebbe incentrata esclusivamente sull’intenzione delle parti; la seconda fase, mancato l’obiettivo di ricostruire la comune intenzione, ripiegherebbe sulla lettera, sul testo linguistico del contratto, quasi che l’interprete sia chiamato in un primo tempo a trascurare la lettera del contratto, tutto intento nella ricognizione dell’intera volontà delle parti; e solo in caso di insuccesso debba rivolgersi al testo linguistico, attribuendo a esso, in assenza di indicazioni più specifiche, il significato conforme all’id quod plerumquem accidit. Così, fallito ogni tentativo di stabilire l’interiore volontà dei contraenti, si ripiegherebbe su un significato socialmente comune e statisticamente probabile della dichiarazione.

Oggetto del procedimento di interpretazione contrattuale, in tutte le fasi in cui esso è scomponibile, non è l’intendimento delle parti, bensì, sempre e soltanto, il testo linguistico del contratto. Gli artt. 1362-1372 c.c. disciplinano un procedimento volto a uno scopo unitario, attraverso successive attività; e il diverso grado di analisi non significa diversità dei fini dei due momenti dell’interpretazione.

La vicenda interpretativa, disegnata dall’art. 1362 c.c., potrebbe essere così ricostruita: occorre attribuire al testo contrattuale un significato univoco; a tal fine il legislatore impone all’interprete di non fermarsi al significato letterale delle parole ma di indagare la comune intenzione delle parti. L’art. 1362 c.c. non addita la comune intenzione delle parti quale oggetto dell’interpretazione, ma indica all’interprete la necessitò di andare oltre la lettera del contratto; la ricerca del significato della clausola passa così anche attraverso la comune intenzione, la quale a sua volta si ricava dal senso complessivo dell’atto e dal contegno delle parti, precedente e successivo alla conclusione del contratto.

Lettera, intenzione, contengo sono anelli della stessa catena. Al fine di determinare la comune intenzione, l’interprete deve identificare e selezionare i contegni rilevanti, per poi valutarli secondo dati criteri orientativi; l’intenzione comune non è offerta dalle parti ma inferita dall’interprete. La necessità di andare oltre la lettera – il c.d. principio di ultraletteralità – si risolve così nel “principio di complessità”: interpretare il contratto è accertare il senso delle parole, come risulta dal complesso dell’atto, ex art. 1363 c.c. e dal comportamento complessivo delle parti, ex art. 1362, secondo comma, c.c.

L’eventuale insuccesso del primo metodo interpretativo, indicato all’interprete attraverso l’aggancio alla comune intenzione, segna la necessità di trascorrere ad altri metodi, non deteriori ma semplicemente successivi nella scansione temporale del procedimento ermeneutico.

Diversità di metodi, dunque, non di problemi; il problema è sempre quello di sciogliere la polisemia: dubbi, ambiguità, pluralità di sensi hanno resistito all’indagine dell’interprete.

L’esito negativo ottenuto mediante l’esercizio del metodo soggettivo, ex artt. 1362-1365 c.c., apre così la strada all’applicazione dei canoni di interpretazione oggettiva, ex artt. 1367-1371 c.c.

Il diverso livello o piano interpretativo su cui operano i due metodi sarebbe segnalato dalla presenza del dubbio “giuridico”, quello a cui fa riferimento il legislatore negli artt. 1367 ss.

Nell’ambito delle regole di c.d. “interpretazione oggettiva” è dato scorgere un certo grado di “specialità” di alcune norme rispetto ad altre, di modo che, avverandosi la fattispecie in esse prevista, il principio ermeneutico contenuto nella norma “speciale” dovrà essere applicato con precedenza rispetto agli altri; viceversa, non avverandosi la fattispecie prevista, quel principio non troverà applicazione alcuna.

Si può affermare che, nel procedimento di applicazione delle regole di interpretazione oggettiva, le norme di cui agli artt. 1368, secondo comma, e 1370 c.c. non offrono all’interprete, a differenza delle altre norme della stessa specie, un problema di precedenza, ma soltanto un problema di applicabilità.

Infatti, delle due l’una: o nel contratto da interpretare è rinvenibile la fattispecie in esse prevista, e allora, essendo applicabili, dovrà essere necessariamente assegnata la precedenza al canone interpretativo in esse contenuto, rispetto agli altri criteri interpretativi della stessa specie; oppure il contratto da interpretare non è riconducibile alla fattispecie in esse considerata, e allora non potranno trovare applicazione né prima né dopo le altre norme di interpretazione oggettiva.

Da quanto appena considerato risulta agevole dedurre che nei confronti dell’art. 1370 e dell’art. 1368, secondo comma, c.c. non è possibile teorizzare la presenza di una norma “speciale” che ne stabilisca la precedenza nel procedimento di applicazione dei canoni di interpretazione oggettiva, ma, semmai, è possibile configurare una norma che ne estenda l’applicabilità anche al di là dei casi in esso già espressamente previsti.

Alla luce di ciò, ha osservato il giudice di legittimità che la Corte territoriale ha interpretato, erroneamente, la clausola contrattuale escludente la copertura per i fatti “accidentali” alla luce del solo criterio letterale, cioè secondo il senso letterale dell’aggettivo “accidentali”, senza tener conto che la suddetta clausola fa parte di un assetto contrattuale che è destinato a produrre effetti tra le parti e deve quindi essere fondato su una causa concreta.

Il giudice del merito ha dunque trascurato di praticare l’interpretazione mediana fra i c.d. criteri soggettivi e quelli oggettivi, cioè sia quella di cui all’articolo 1366 c.c., basata sul criterio della buona fede, sia quella dell’articolo 1367 c.c., sia ancora quella dell’articolo 1370 c.c.

Argomento: contratto di assicurazione
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Civ., Sez. III, 27 giugno 2023, n. 18320)

stralcio a cura di Giovanni Pagano

1. (…) il ricorrente lamenta che il giudice d'appello avrebbe errato nel considerare nel novero dei rischi dedotti in polizza solamente i danni da spargimento d'acqua causati da una rottura accidentale delle tubature, escludendo invece i danni sempre da spargimento d'acqua causati da difetti di manutenzione e/o costruzione. (…) 2. Il motivo di ricorso è fondato. Secondo costante giurisprudenza di questa Corte l'interpretazione delle clausole di un contratto di assicurazione in ordine all'estensione e alla portata del rischio assicurato rientra nei compiti istituzionali del giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il caso in cui non sia conforme ai criteri di ermeneutica contrattuale, (Cass., Sez. 3, 27/07/2001, n. 10290; Cass., 22/10/2014, n. 22343; Cass., 21/4/2005, n. 8296; Cass., Sez. 3, 12/05/2020, n. 8810). Nel caso di specie la Corte territoriale ha interpretato la clausola contrattuale escludente la copertura per i fatti "accidentali" alla luce del solo criterio letterale, cioè secondo il senso letterale dell'aggettivo "accidentali", senza tener conto che la suddetta clausola fa parte di un assetto contrattuale che è destinato a produrre effetti tra le parti e deve quindi essere fondato su una causa concreta. Il giudice del merito ha dunque trascurato di praticare l'interpretazione mediana fra i c.d. criteri soggettivi e quelli oggettivi, cioè sia quella di cui all'art. 1366 c.c., basata sul criterio della buona fede, sia quella dell'art. 1367 c.c., sia ancora quella dell'art. 1370 c.c. La considerazione di questi tre criteri ermeneutici, unitamente alla considerazione per cui la causa del tipo contrattuale è quella di tenere indenne l'assicurato dalla responsabilità civile verso terzi, avrebbero dovuto indurre necessariamente i giudici di merito ad intendere l'aggettivo "accidentali" in modo tale da permettere la realizzazione della causa concreta e del sostanziale assetto di interessi perseguito dalle parti del contratto assicurativo in esame. 2.1 In questo contesto è necessario interpretare l'aggettivo "accidentale" non alla lettera, bensì nel senso che consenta il dispiegarsi della causa del contratto, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte per cui "L'assicurazione della responsabilità civile, mentre non può concernere fatti meramente accidentali, dovuti cioè a caso fortuito o forza maggiore, dai [continua ..]

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