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Costituzionalmente illegittimo il termine di 24 ore per proporre reclamo avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza in tema di permessi premio
Agostino Sabatino
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Nota di Agostino Sabatino
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del 2020, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354, «nella parte in cui prevede, mediante rinvio al precedente art. 30-bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto a reclamo al tribunale di sorveglianza entro ventiquattro ore dalla sua comunicazione, anziché prevedere a tal fine il termine di quindici giorni». La pronuncia in commento trae origine dall’ordinanza di rimessione con cui la Corte di cassazione ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24, 27 e 111 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 30-bis, comma 3, ord. penit., in combinato disposto con il successivo art. 30-ter, comma 7, ord. penit., «nella parte in cui prevede che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza in tema di permesso premio è pari a 24 ore». In realtà, questioni di legittimità costituzionale del tutto analoghe erano state già, in passato, sottoposte al vaglio della Consulta. La Corte, con la sentenza n. 235 del 1996, pur rilevando l’irragionevolezza della previsione di un identico termine per il reclamo contro i due diversi tipi di permessi, aveva sostenuto l’inammissibilità delle questioni prospettate, «non potendo rintracciare nell’ordinamento una conclusione costituzionalmente obbligata» che potesse rimediare in via diretta alla – pur riscontrata – eccessiva brevità del termine in oggetto. In quell’occasione, però, la Corte aveva invitato il legislatore a «provvedere, quanto più rapidamente, alla fissazione di un nuovo termine che contemperi la tutela del diritto di difesa con le esigenze di speditezza della procedura». Nella suddetta pronuncia la Consulta aveva, altresì, avuto modo di richiamare altra precedente decisione (sentenza n. 118 del 1990) in cui aveva affermato che i permessi premio costituiscono «un incentivo alla collaborazione del detenuto con l’istituzione carceraria», nonché «uno strumento di rieducazione, in quanto consente un iniziale reinserimento del condannato nella società». Tale configurazione imponeva, dunque, di collocare i permessi premio in una categoria completamente distinta da quella del [continua ..]