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Indennizzo da vaccino e decorrenza dei termini
Alessandra Lepanto
La Corte costituzionale, con la sentenza in commento, ripercorre le distinte fasi della sua precedente giurisprudenza e dell’evoluzione legislativa che hanno portato al riconoscimento di indennità a favore dei danneggiati da vaccinazioni obbligatorie.
La sentenza trae origine dalla conferma da parte della Corte d’Appello della decisione di primo grado, che aveva ritenuto corretta l’applicazione all’indennizzo per danno vaccinale del criterio della decadenza “mobile” stabilito per i soli trattamenti pensionistici, in base al quale la causa estintiva del diritto indennitario operava limitatamente ai ratei interni al triennio, mai per l’intero.
Successivamente, nel corso del giudizio di Cassazione, gli Ermellini sollevavano, in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 38 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210 riguardante l’indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati, «nella parte in cui non prevede che l’effetto di decadenza conseguente alla presentazione della domanda oltre il triennio, decorrente dal momento in cui l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno, sia limitato ai ratei relativi al periodo antecedente al suddetto periodo triennale».
Con riferimento al merito delle questioni di diritto esaminate dalla Corte Costituzionale, nonché ad alcuni interventi occorsi nel medesimo, appare opportuno soffermarsi su quello del Presidente del Consiglio dei Ministri, secondo il quale l’applicazione del predetto criterio della decadenza “mobile” a due istituti fra loro eterogenei - avendo l’indennizzo per danno vaccinale una natura assistenziale-solidaristica, mentre la fattispecie in comparazione natura assistenziale-pensionistica- avrebbe causato conseguenze di carattere estremamente manipolativo, imponendo di fatto ai pubblici poteri l’erogazione di una nuova prestazione sociale.
Per tale ragione, la parte medesima richiedeva che le questioni fossero dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.
Si costituivano, altresì, in giudizio gli esercenti della responsabilità genitoriale sulla minore danneggiata da vaccinazione antimorbillosa, i quali chiedevano l’accoglimento delle questioni in forza del presupposto dell’imprescrittibilità del diritto all’indennizzo quale erogazione assistenziale.
La motivazione addotta dai suddetti genitori, si fondava espressamente sulla sentenza n. 107 del 2012 della Corte costituzionale, ove veniva riconosciuto il diritto all’indennizzo per i danneggiati da vaccinazioni non obbligatorie e pertanto, l’applicazione del criterio della decadenza “tombale” avrebbe di fatto ingiustificatamente negato l’indennizzo alla minore, la quale si era sottoposta alla vaccinazione antimorbillo non obbligatoria.
La Corte costituzionale al fine di decidere nel merito richiamava una successione di leggi e di ulteriori sentenze della Corte stessa.
Anzitutto, la predetta Corte richiamava la sentenza n. 307 del 1990, con la quale cui veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 32 della Costituzione, della L. 51/1966, nella parte in cui non prevedeva, nelle fattispecie al di fuori della responsabilità aquilana, la concessione di un’equa indennità da parte dello Stato per il caso di danno derivante da contagio o da altra apprezzabile malattia causalmente riconducibile alla vaccinazione obbligatoria antipoliomielitica.
In forza di tale pronuncia veniva affermato il principio secondo cui il corretto bilanciamento fra la dimensione individuale e collettiva della salute implica il «riconoscimento di un equo ristoro in favore di chi, obbligato a sottoporsi a un trattamento sanitario che importi un rischio specifico subisca, per l’avverarsi del rischio, un danno ulteriore rispetto alle conseguenze normalmente proprie (e tollerabili) di ogni intervento sanitario».
Su tali premesse si fonda la L. 210/1992 nella parte in cui all’art. 1 riconosceva il diritto a un indennizzo da parte dello Stato a chiunque, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria, lesioni o infermità, abbia riportato una menomazione permanente della integrità psico-fisica.
La medesima legge, inoltre, all’art. 3 comma 1, descrive la procedura idonea a richiedere e a vedersi riconosciuto l’indennizzo e precisamente che i soggetti interessati presentino alla USL competente le relative domande entro il termine perentorio di tre o dieci anni a seconda della vaccinazione effettuata.
Il termine perentorio di cui sopra decorre dal momento in cui, sulla base della documentazione consegnata, l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno.
Occorre, tuttavia, fare una precisione, ovvero che al momento il riferimento è, esclusivamente, all’indennità a seguito di vaccinazioni obbligatorie, che si allontanano dal caso in concreto in questione in quanto il vaccino a cui si è sottoposta la minore è facoltativo.
Conseguentemente, occorreva che la Corte Costituzionale estendesse il riconoscimento dell’indennizzo riservato dalle leggi finora esaminate alle sole menomazioni permanenti derivanti da vaccinazioni obbligatorie, anche a gravi e permanenti lesioni all’integrità psico-fisica insorte a seguito di alcune, specificamente individuate, vaccinazioni non obbligatorie, ma raccomandate.
Tale estensione, in effetti, è avvenuta, in particolare, con le successive sentenze n. 27 del 1998 (quanto alla vaccinazione raccomandata, contro la poliomielite), n. 423 del 2000 (con riferimento alla vaccinazione raccomandata, contro l’epatite B), n. 107 del 2012 (in relazione alla vaccinazione contro morbillo, parotite e rosolia), n. 268 del 2017 (con riguardo alla vaccinazione antinfluenzale) e n. 118 del 2020 (per la vaccinazione contro l’epatite A).
La ratio posta a fondamento e che accomuna le richiamate pronunce additive sopra elencate è «la considerazione che la mancata previsione del diritto all’indennizzo in caso di patologie irreversibili derivanti da determinate vaccinazioni raccomandate si risolve in una lesione degli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, in quanto le esigenze di solidarietà sociale e di tutela della salute del singolo richiedono che sia la collettività ad accollarsi l’onere del pregiudizio individuale, mentre sarebbe ingiusto consentire che siano i singoli danneggiati a sopportare il costo del beneficio anche collettivo».
Orbene, come anche ricordato nella sent. n. 268 del 2017, la giurisprudenza, nell’estendere l’indennizzo altresì alle vaccinazioni raccomandate, ha inteso «completare il “patto di solidarietà” tra individuo e collettività in tema di tutela della salute».
Per ciò che concerne la determinazione del quantum e delle modalità di realizzazione dell’indennizzo predetto, tale disciplina è rimessa alla discrezionalità del legislatore, il quale ha la facoltà di prevedere un termine entro il quale l’interessato può domandare l’indennità, agendo nel ragionevole bilanciamento dei diversi interessi costituzionalmente coinvolti.
Pertanto, la necessità di tutelare il suddetto “patto di solidarietà”, impone che il dies a quo del triennio per la presentazione della domanda amministrativa, sia determinato non solo in riferimento al momento della scoperta del danno - ovvero all’esteriorizzazione della menomazione permanente dell’integrità psico-fisica e del suo nesso causale alla vaccinazione - bensì anche alla azionabilità del diritto all’indennizzo.
L’individuazione di questo dies a quo si rivela indispensabile nei confronti di tutti i soggetti che, al momento della conoscenza del danno, non erano titolari di alcun diritto esercitabile, in quanto il danno provocato da alcune categorie di vaccino non era soggetto a indennizzo.
Conseguentemente, la situazione di impossibilità di presentare la domanda volta all’indennizzo dei danni da vaccinazione contro il morbillo, la parotite e la rosolia in un periodo antecedente alla sentenza n. 107 del 2012, si porrebbe in contrasto con i richiamati art. 2 e 32 Cost., in quanto, oltre alla compressione del diritto di ottenere l’indennizzo nella fase antecedente alla sua pronuncia del 2012, vi sarebbe «l’illogica pretesa che gli interessati rispettassero un termine per la proposizione di una domanda relativa a un indennizzo per il quale, al momento in cui ebbero conoscenza del danno, non avevano alcun titolo».
Alla luce di queste premesse, la Corte Costituzionale ritiene che «l’art. 3, comma 1, della legge n. 210 del 1992, ove dispone che il termine di tre anni per la presentazione della domanda, pur a fronte di una prestazione indennitaria “nuova”, ovvero di una “nuova” categoria di beneficiari, […] decorra comunque dal pregresso momento di conoscenza del danno, pone una limitazione temporale che collide con la garanzia costituzionale del diritto alla prestazione, ne vanifica l’esercizio e, in definitiva, impedisce il completamento del “patto di solidarietà” sotteso alla pronuncia additiva».
Stante quanto sopra la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1 della predetta legge in riferimento agli artt. 2 e 32 della Costituzione, nella parte in cui prevede che la decorrenza del termine sia fissata al solo momento della conoscenza del danno, e non anche con riguardo al momento della sua divenuta indennizzabilità.
Le censure inerenti agli artt. 3 e 38 Cost. sono dichiarate assorbite.
Sezione: Corte Costituzionale
(C. Cost., 6 marzo 2023, sent. n. 35)
stralcio a cura di Giovanni Pagano
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