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L´interazione virtuale con gruppi online di ispirazione ideologica neonazista, anche attra-verso “like” e rilancio di “post”, configura il delitto di cui all´art. 604-bis co.2 c.p.
Veronica Romano
La sentenza in epigrafe si inserisce nel solco di una giurisprudenza - quella relativa ai reati di istigazione e propaganda per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa - ad alto tasso di problematicità teorica. Invero, nell’odierna “società del rischio”, l’insidiosità di siffatte condotte è accentuata dal dilagante utilizzo dei social network (d’ora in poi, social), la cui potenziale diffusività non può essere ignorata dal giudice di volta in volta chiamato ad operare il bilanciamento in concreto tra il diritto alla libera manifestazione del pensiero e la tutela della eguale dignità umana (bene giuridico, quest’ultimo, che in materia di propaganda razzista ha ormai sostituito l’ordine pubblico, come testimonia la collocazione del reato di cui all’art. 604-bis c.p. nel novero dei delitti contro l’eguaglianza).
Nel caso di specie, i giudici di legittimità si sono confrontati con un caso di propaganda antisemita, consistente nella divulgazione di idee di natura suprematista della razza bianca e di negazionismo della Shoah, posta in essere dall’indagato in qualità di membro di “un sodalizio […] dotato di una rudimentale struttura organizzativa composta da cellule territoriali […] che si riprometteva di creare le basi per un futuro colpo di Stato […] e che agiva anche a livello virtuale, mediante un’opera di propaganda ideologica e di reclutamento e indottrinamento di adepti […] con incitamento alla violenza per motivi razziali, etnici e religiosi”.
Sebbene l’organigramma e gli scopi del sodalizio, unitamente al rinvenimento di armi al momento dell’esecuzione della prima ordinanza cautelare, avessero giustificato l’adozione della misura anche in relazione al reato di cui all’art. 270-bisc.p., il ricorso dell’indagato avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame si è concentrato sulla contestazione della sussistenza dei gravi indizi con riferimento al solo reato di cui all’art. 604-bis c.p.
La ragione di ciò è facilmente intuibile ove si consideri che, a differenza della prima ipotesi accusatoria, fondata su elementi probatori empiricamente afferrabili (inter alia, la disponibilità di armi), la seconda si caratterizza per una dimensione che - mutuando una nota espressione dal sociologo Zygmunt Bauman - può essere definita “liquida” in quanto facente leva su alcuni scambi di comunicazione virtuale tra l’indagato e gli altri presunti membri della predetta associazione.
La Suprema Corte, lungi dal soffermarsi sul contenuto concreto di tali interazioni - dall’indagato giustificate in termini di “giochi informatici di magia e di simulazione di guerra” in quanto tali costituenti, a suo avviso, manifestazione della libertà di espressione - si limita a dedurne, con un argomentare apodittico, la concreta pericolosità dalla potenziale diffusività dei social, in grado di raggiungere un numero indeterminato di utenti.
A ben vedere, il rischio di una smaterializzazione del principio di offensività è accentuato dall’acritico rinvio ad una precedente sentenza di legittimità (cfr. Cass. pen., sentenza 6 dicembre 2021, n. 4534) che aveva sussunto nella fattispecie di cui all’art. 604-bis, comma 2, c.p. anche la condotta di mera apposizione di uno o più like ad un post inneggiante alla discriminazione razziale, etnica o religiosa e da altri pubblicato in via autonoma, sul rilievo che l’algoritmo di funzionamento dei social attribuirebbe maggiore visibilità ai post che ricevono più like, di guisa che la concreta offensività di un post aumenterebbe all’aumentare dei like da esso ricevuti.
Ragionando in questi termini, i giudici estensori della sentenza in commento hanno contribuito di fatto al consolidamento di un indirizzo ermeneutico che ha suscitato non poche perplessità in dottrina quanto alla sua compatibilità con il principio di offensività e con quello di colpevolezza.
Si argomenta infatti che, in ossequio al principio di offensività, la pericolosità delle interazioni virtuali andrebbe vagliata alla luce delle circostanze del caso concreto, a meno di non voler svuotare di consistenza empirica il concreto pericolo di diffusione, confondendolo con la mera astratta possibilità di diffusione tramite i social; in secondo luogo, poiché il concreto funzionamento degli algoritmi è oggetto di proprietà intellettuale delle aziende gestiscono i social (ad esempio, Facebook), la prognosi di pericolo concreto avente ad oggetto l’offensività della condotta di mera apposizione del like risulterebbe, oltre che ardua, molto approssimativa.
Sul versante della colpevolezza, si argomenta che, anche a voler concedere che gli algoritmi in questione diano maggiore diffusione (ergo, maggiore carica offensiva) ai post che ricevono più like, non tutti gli utenti conoscono il meccanismo concreto tramite il quale le piattaforme virtuali decidono di divulgare le informazioni disponibili sui loro canali; inoltre, risulta arduo ipotizzare che la condotta di mera apposizione del like sia sorretta dal c.d. “dolo di propaganda”, considerato che tutte le piattaforme social prevedono un’apposita funzione che consente all’utente di condividere il contenuto con i propri contatti (ad esempio, sulla propria bacheca Facebook), qualora costui non voglia limitarsi ad esprimere un mero apprezzamento.
L’apposizione del mero like a post discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi, a fortiori se non sorretta dalla consapevolezza e volontà di contribuire per il tramite di un algoritmo alla diffusione del suo contenuto, per quanto moralmente riprovevole, non sembra pertanto travalicare i limiti della libertà di espressione costituzionalmente tutelata, a meno di non voler conferire all’eguale dignità umana un volto assoluto e totalizzante, tale da prestarsi quale argomento knock-down in grado di stroncare a monte qualsivoglia bilanciamento con altri beni giuridici dotati di copertura costituzionale.
Orbene, nella sentenza in rassegna il Supremo Collegio non pare far buon governo della preziosa arte del bilanciamento, limitandosi ad affermare che “né potrebbe invocarsi - a discrimine di tali contenuti corrispondenti alla fattispecie delittuosa - la libertà di opinione e di parola, trattandosi del bilanciamento di interessi di rango costituzionale che hanno già trovato assetto definitivo nella incriminazione prevista dall’art. 604-bis c.p.”.
Così (non) argomentando, i giudici di legittimità hanno perso la preziosa occasione di operare un discrimen tra le condotte di condivisione e rilancio dei post antisemiti e le condotte di mera apposizione del like. Inoltre, hanno dimostrato di confondere il piano del bilanciamento in astratto con quello del bilanciamento in concreto, quest’ultimo assimilato tout court al primo.
Limitandosi ad una motivazione per relationem, la Suprema Corte ha aggiunto un ulteriore tassello nel processo di smaterializzazione della condotta di propaganda per motivi razziali, etnici o religiosi, in linea con la tendenza, sempre più crescente, a conferire al diritto penale una funzione pedagogica e culturale che, in un’ottica di extrema ratio e di separazione tra diritto e morale, dovrebbe invece essere svolta dalle cosiddette “agenzie educative” (scuole, famiglia, etc.).
Tale tendenza ad ampliare l’area della punibilità non può non allarmare chiunque abbia a cuore il volto costituzionale dell’illecito penale, a maggior ragione ove si ponga mente al fatto che il comma 2 dell’art. 604-bis c.p., nel punire “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici o religiosi” relizza già un arretramento della soglia della punibilità, giacché al modello anticipatorio tipico dei reati associativi si cumula l’ulteriore finalità di commettere reati di pericolo.
Il timore è viepiù fondato se si aggiunge l’ulteriore considerazione che anche laddove venga in rilievo nella forma di fattispecie-base di cui all’art. 604-bis comma 1 c.p. ovvero quale circostanza aggravante ex art. 604-ter c.p., la condotta di propaganda razzista viene sovente contestata unitamente ad un’altra fattispecie associativa: quella di cui all’art. 270-bisc.p. (sia consentito rinviare, a tal proposito, a Cass. pen., sentenza 24 luglio 2023 n. 31905, quale esempio del primo tipo, e a Trib. Bari, G.u.p., sentenza 12 maggio 2020, n. 387, quale esempio del secondo tipo).
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. I, 20 settembre 2023, n. 38423)
stralcio a cura di Annapia Biondi
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