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La libertà didattica in ambito scolastico non implica anche la “libertà di non insegnare”

Alessandro Turano

Nella pronuncia in commento, il Supremo Collegio conferma il giudizio della Corte d’Appello che ha ritenuto legittima la dispensa dell’insegnante per l’adozione di modalità didattiche incompatibili con l’insegnamento.

Il caso sottoposto alla Cassazione trae origine dal provvedimento assunto da un dirigente scolastico con il quale una docente di ruolo di storia e geografia in una scuola secondaria di secondo grado veniva dispensata dal servizio per incapacità didattica (ex art. 512 d.lgs. n. 297/1994), ovverosia per «assoluta e permanente inettitudine alla docenza».

In primo grado il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 277 del 2018, accoglieva la domanda della ricorrente tesa ad accertare l’illegittimità del provvedimento, e ordinava alla P.A. di reintegrarla in servizio.  Il giudice di prime cure fondava la decisione sulla irrilevanza dei mezzi di prova dedotti da parte resistente, che sarebbero stati acquisiti all’esito di accertamenti ispettivi riferiti a un periodo di tempo complessivamente esiguo (di poco superiore a quattro mesi di servizio effettivo reso dalla docente) e per giunta indagato in soli tre giorni di ispezione, intervallo giudicato troppo «stretto e breve» per una valutazione compiuta.

La Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 488 del 2021, in riforma della decisione di primo grado accoglieva l’impugnazione del Ministero dell’Istruzione e rigettava la domanda della lavoratrice, ritenendo legittimo il provvedimento di destituzione adottato ai sensi dell’art. 512 d.lgs. n. 297/1994. Nel ribaltare il giudizio, la Corte di appello evidenziava che era documentato il fatto che la docente, su 24 anni di insegnamento, risultava essere stata assente per complessivi 20 anni (di cui i primi 10 totalmente assente e per i residui 14 era stata in gran parte in malattia, da 40 a 180 giorni per anno), totalizzando, in definitiva, un totale cumulativo di 4 anni di insegnamento che rendeva impossibile esaminare periodi più lunghi di quelli oggetto di ispezione (5 mesi nel 2015). Contrariamente a quanto sostenuto dal primo giudice, attribuiva inoltre ai documenti acquisiti sulla base dei verbali del dirigente scolastico e delle risultanze ispettive il valore di prova fino a querela di falso a mente dell’art. 2700 c.c.

La Corte riteneva perciò provata la carente metodologia di lavoro dell’insegnante, fatta di lezioni improvvisate, spiegazioni confuse, registro elettronico in disordine e di giudizi e valutazioni attribuiti «in modo causale ed improvvisato», oltre che di gravi imprecisioni nei programmi e disattenzione durante le interrogazioni.

Contro la sentenza di appello la docente proponeva ricorso per Cassazione sulla base di otto motivi di gravame, quattro dei quali fondati su errori di diritto ex art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., i restanti su violazioni di norme processuali ex art. 360, co. 1, nn. 4 e 5 c.p.c.

Resisteva, con controricorso, la parte datoriale. All’esito del giudizio, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso, dichiarando inammissibili ovvero infondate le doglianze esibite dalla ricorrente.

L’iter logico-giuridico seguito dalla Suprema Corte nella risoluzione della controversia in esame valorizza due direttrici essenziali di ragionamento: la prima relativa all’applicabilità dell’art. 512 d.lgs. n. 297/1994 al caso concreto, la seconda orientata a vagliare il contenuto del principio di fonte costituzionale della “libertà di insegnamento” (art. 33, co. 1, Cost.).

In continuità con il principio di diritto enunciato da Cass. 8 aprile 2008 n. 9129 e da Cass. 22 giugno 2012 n. 10438, la Sezione lavoro della Corte di Cassazione ricorda che, per effetto delle norme che regolano l’autonomia delle istituzioni scolastiche e attribuiscono alle stesse funzioni e compiti in materia di gestione del personale (segnatamente la legge delega n. 59/1997, art. 14 del d.P.R. n. 275 del 1999 e art. 25 del d.lgs. n. 165 del 2001), e dell’intervenuta contrattualizzazione del rapporto di impiego pubblico del personale scolastico, spetta al dirigente la competenza ad adottare i provvedimenti di gestione delle risorse e del personale in servizio nella scuola (art. 25 del d.lgs. n. 165 del 2001) come, nel caso di specie, è la dispensa dal servizio per incapacità didattica.

Detto provvedimento – osserva la Corte – non discendendo da comportamenti colpevoli, «non implica una responsabilità né postula un giudizio di proporzionalità, poiché non ha carattere sanzionatorio»: esso è stato reso all’esito di un giudizio che si è limitato a constatare l'oggettiva inidoneità a svolgere la funzione di insegnante.

In ragione di detto canone interpretativo, la Cassazione esclude la natura disciplinare dell'atto di dispensa per incapacità didattica, e contestualmente afferma l’inapplicabilità al medesimo provvedimento delle norme sul procedimento disciplinare dei pubblici dipendenti di cui agli artt. 55 ss. del d.lgs. n. 165 del 2001.

Esclude inoltre ogni errore di sussunzione del fatto in esame sotto la richiamata fattispecie di cui all’art. 512 d.lgs. n. 297/1994, osservando che la norma in questione prevede tre distinte tipologie di risoluzione del rapporto di lavoro che, seppur tutte riconducibili all’istituto della dispensa, «non sono sovrapponibili quanto alle cause che legittimano l’esercizio del potere da parte dell’amministrazione scolastica»: l’inidoneità fisica, derivante dalle condizioni di salute psico-fisica dell’impiegato; il persistente insufficiente rendimento, prodotto da insufficiente impegno e violazione dei doveri d’ufficio; l’incapacità didattica, da intendersi quale «inettitudine assoluta e permanente a svolgere le mansioni inerenti all’insegnamento» e frutto di «deficienze obiettive, comportamentali, intellettive o culturali».

Così letta, la nozione di incapacità didattica – in linea con gli indirizzi interpretativi della giurisprudenza amministrativa che nel tempo ha distinto i due istituti della dispensa per incapacità didattica e per persistente e insufficiente rendimento (Consiglio di Stato, sentenza n. 2495 del 26 aprile 2000 e Consiglio di Stato, sentenza n. 2857 del 24 maggio 2013) – è qualificata dal Giudice di Cassazione quale vizio funzionale incidente sulla causa della relazione negoziale intercorrente tra l’insegnante e l’amministrazione statale. Essa, in quanto vizio non genetico del rapporto contrattuale, ben può sopravvenire nel corso dello stesso, a nulla rilevando il superamento del periodo di prova eccepito a difesa dalla ricorrente. Tra l’altro – evidenzia la Corte – l’“inettitudine permanente e assoluta” alla docenza si fonda, in punto di fatto, sull’individuazione di elementi oggettivi ritualmente acquisiti in atti e opportunamente apprezzati dalla Corte territoriale, avuto riguardo al valore probatorio degli stessi come normato dall’art. 2700 c.c.: non solo i verbali del dirigente scolastico relativi ai colloqui con studenti e genitori delle classi dove la ricorrente insegnava, ma anche e soprattutto il rapporto ispettivo con 59 allegati che aveva costituito l’accertamento tecnico posto a fondamento della dispensa.

Riguardo poi alla rivendicata libertà individuale d'insegnamento, se è pur vero che costituisce valore costituzionale (art. 33, co. 1, Cost.) essa non è però illimitata, «trovando il proprio più importante limite nella tutela del destinatario dell'insegnamento, cioè dell'alunno» (art. 31, art. 32, co. 2, e art. 34 Cost.), titolare di un vero e proprio “diritto allo studio” (art. 2 d.lgs. 297/1994).

Il concetto di "libertà didattica" – prosegue la Suprema Corte – «comprende, certo, un'autonomia nella scelta di metodi appropriati d'insegnamento, ma questo non significa che l'insegnante possa non attuare alcun metodo o che possa non organizzare e non strutturare le lezioni. Una libertà così intesa equivarrebbe a una "libertà di non insegnare" incompatibile con la professione di docente».

La libertà di insegnamento, qualificata dalla legge come funzione (art. 395 d.lgs. 297/1994) e così ribadita nell’art. 27 del CCNL 2016-18 di comparto, costituisce di fatto un complesso di facoltà che combinano diritti e doveri, obbligatoriamente e in modo corretto esercitabili per la realizzazione di un diritto altrui (dell’alunno o studente di essere educato, formato, istruito: art. 1, comma 2, d.P.R. 275/1999). Quindi da svolgersi entro le coordinate poste dalla legge e in conformità delle conseguenti decisioni collegialmente adottate dalla scuola.

Nella cornice di principi così espressi, la Cassazione evidenzia, tra le righe, le condizioni e i limiti che l’attività d’insegnamento deve rispettare per essere coerente con il sistema previsto dall’ordinamento. La “libertà di insegnamento” può e deve essere, in definitiva, rendicontata e apprezzata alla pari di ciò che avviene nello svolgimento di ogni funzione agita nelle amministrazioni pubbliche. E in ragione di ciò non è affatto preclusa al dirigente scolastico – rappresentante legale e responsabile della gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali e dunque dei risultati del servizio (art. 25, comma 1, d.lgs. 165/2001) – la cognizione dei contenuti e dei modi in cui l’insegnamento è stato impartito (anzi, ciò è un suo dovere, quale primo garante del diritto dell’alunno/studente alla prestazione).

Sul punto la giurisprudenza, risalente e mai smentita, resta concorde nel reputare di spettanza del responsabile dell’istituzione scolastica «il potere di accertare e valutare, sulla base dell’esperienza concreta e dei risultati raggiunti dal docente, il grado di efficacia del metodo seguito» (Consiglio di Stato, sez. VI, 22/12/1966, n. 297), dato che «la libertà d’insegnamento non implica l’insindacabilità in ordine ai metodi didattici, che devono assicurare comunque l’efficienza del servizio dell’istruzione in vista del raggiungimento degli specifici scopi educativi per cui essa è organizzata» (Consiglio di Stato, 01/06/1971, n. 405 e 06/05/1969, n. 207).

Argomento: Del rapporto di lavoro
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Civ., Sez. Lav., 22 giugno 2023, n. 17897)

stralcio a cura di Giorgio Potenza

“2.7. Nè vi è stata lesione del principio costituzionale della libertà di insegnamento, avendo la Corte territoriale ritenuto provati i seguenti elementi fattuali: "carente metodologia di lavoro manifestata dall' insegnante nel periodo in esame", "mancato possesso dei libri di testo", "disinteresse per gli strumenti didattici (ad esempio le fotocopie)", " introduzione di una lezione dialogata (in assenza di tutti gli altri presupposti affinchè il dialogo sia effettivo)", "assenza di un esame del programma svolto dalla supplente e dal quale riprendere la continuità didattica" (pag. 13 della sentenza). Conseguentemente, leggendo questi fatti in modo unitario tra loro e con gli altri elementi "presuntivi" emersi dall' istruttoria delle ispettrici, ricavabili dalle convergenti dichiarazioni degli studenti, di altri docenti e del personale scolastico, la Corte di merito ha ritenuto che sussistessero " impreparazione, incoerenza, confusione didattica" e che fossero carenti gli aspetti "vitali", "essenziali" dell' insegnare ed ha escluso anche qualsivoglia capacità didattica "residua" della docente, ponendosi in linea con il dettato legislativo. Si ricorda che la libertà d' insegnamento quale libertà individuale costituisce un valore costituzionale (art. 33, comma 1, Cost.), che, però, non è illimitata, trovando il proprio più importante limite nella tutela del destinatario dell’insegnamento, cioè dell'alunno (Cost., art. 31, art. 32, comma 2, e art. 34). I principi costituzionali trovano conferma nel D.Lgs. n. 297 del 1994, artt. 1 e 2. L'art. 1 (Formazione della personalità degli alunni e libertà d' insegnamento) così prevede: "1. Nel rispetto delle norme costituzionali e degli ordinamenti della scuola stabiliti dal presente testo unico, ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente. 2. L'esercizio di tale libertà è diretto a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni. 3. E garantita l'autonomia professionale nello svolgimento dell'attività didattica, scientifica e di ricerca"; l'art. 2 (Tutela della libertà di coscienza degli alunni e diritto allo studio) precisa: "1. L'azione di promozione di cui all'art. 1 è attuata nel rispetto [continua ..]

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