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Non sussiste il reato di molestie perpetrato su piattaforme di messaggistica virtuale istantanea quando il destinatario può disattivare la ricezione delle notifiche del mittente
Luigi Martini
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte di Cassazione annullava senza rinvio la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Caltanissetta, che aveva condannato l’imputato alla pena di mesi 2 di arresto, per il reato previsto dall’art. 660 c.p., per aver inviato una serie di messaggi molesti, tramite le piattaforme social Facebook e Instagram, alle persone offese.
La Suprema Corte ritiene fondato il ricorso proposto dall’imputato e si sofferma, in particolare, sul significato da attribuire alla locuzione “col mezzo del telefono” - locuzione richiamata dalla norma incriminatrice - ed alla possibilità di farvi rientrare modalità di condotta - non ipotizzabili dal legislatore codicistico del 1930 - diverse dal semplice utilizzo del telefono inteso nell’accezione classica della chiamata come, ad esempio, l’invio di messaggi o e-mail.
Per sciogliere il primo nodo problematico, la Cassazione richiama alcuni orientamenti giurisprudenziali sul punto.
Un primo orientamento esaminava la possibilità di far rientrare nell’ambito di applicazione della fattispecie di cui all’art. 660 c.p. le condotte moleste perpetrate attraverso l’invio di sms, “in quanto il destinatario di essi è costretto, sia de auditu che de visu, a percepirli, con corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica, prima di poter individuare il mittente, il quale in tal modo realizza l’obiettivo di recare disturbo al destinatario” (Cass. pen., Sez. III, 26 marzo 2004, n. 28680).
A tali conclusioni aderivano, seppur con qualche elemento specificante, i successivi orientamenti giurisprudenziali, laddove si affermava che, attraverso l’invio di messaggi a mezzo telefono, si verifica una intrusione nella sfera privata della persona offesa in quanto la comunicazione, specie ove accompagnata da un sistema di alert, è connotata da un’invasività tale da integrare il reato di molestia o disturbo alle persone (Cass. pen., Sez. I, 27 settembre 2011, n. 36779).
Dunque, gli orientamenti richiamati, fatti propri anche dalla sentenza in commento, superavano il problema del significato da attribuire alla locuzione “col mezzo del telefono”, facendovi rientrare tutte le ipotesi in cui vengono utilizzate le “linee telefoniche”.
Al riguardo, la Suprema Corte osserva che “l’interpretazione della espressione col mezzo del telefono, come riferita all’utilizzo delle linee telefoniche, quale veicolo della comunicazione molesta, permette di ricondurre nell’alveo del penalmente rilevante, ai sensi dell’art. 660 c.p., anche l’invio di messaggistica telematica molesta, pure nel contesto dell’attuale sviluppo tecnologico”.
Ciò posto, il ricorso all’applicazione della norma incriminatrice sarebbe giustificato, però, nelle sole ipotesi in cui il mezzo utilizzato sia connotato, in concreto, da una invasività tale da turbare la tranquillità e la quiete della persona offesa, arrecandole molestie.
Il requisito della invasività della comunicazione, dunque, appare elemento dirimente per ritenere integrata la contravvenzione prevista dall’art. 660 c.p.
Sul punto, si registrano diverse pronunce che ravvisano il carattere invasivo della comunicazione - sia essa effettuata tramite sms, e-mail, o social network - proprio nei sistemi di notifica, vale a dire nei sistemi di alert - funzionalità che avverte il mittente, con un avviso acustico, della ricezione di un messaggio - e di preview, funzionalità che permette di visionare, sulla schermata di blocco del telefono, l’anteprima della comunicazione.
In tal senso, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che “ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato in parola è il carattere invasivo della comunicazione non vocale, rappresentato dalla percezione immediata da parte del destinatario dell’avvertimento acustico che indica l’arrivo del messaggio, ma anche - va soggiunto - dalla percezione immediata e diretta del suo contenuto o di parte di esso, attraverso l’anteprima di testo che compare sulla schermata di blocco” (cfr. Cass., pen., Sez. I, 18 marzo 2021, n. 37974).
Con la sentenza in commento la Cassazione, pur condividendo le premesse e gli approdi degli orientamenti richiamati nella parte motiva, perviene ad una conclusione diversa e, per certi aspetti, innovativa.
Pur ritenendo che l’invio di una pluralità di messaggi tramite telefono risulti penalmente rilevante laddove connotato da invasività e petulanza, la Suprema Corte si sofferma sulla possibilità per il destinatario delle comunicazioni di disattivare le notifiche e di sottrarsi, in tal modo, all’interazione immediata con il mittente, osservando che “se sono i sistemi di alert o di preview che affiancano la forma di comunicazione a distanza a rendere la stessa sufficientemente invasiva da dover essere considerata molesta nel significato dell’art. 660 c.p., deve essere a questo punto osservato che la esistenza o meno di un sistema di alert o di preview dipende, in realtà, non dal soggetto che invia, ma da quello che riceve, che può decidere liberamente se consentire all’applicazione di messaggistica telematica di inviargli la notifica della ricezione di un messaggio”.
In tale ottica, sempre secondo il ragionamento seguito dalla Cassazione nella parte motiva della sentenza in commento, l’equiparazione tra la invasività delle comunicazioni effettuate tramite messaggistica istantanea e quelle tradizionali effettuate con il mezzo del telefono non sarebbe più giustificata, poiché la maggiore invasività del mezzo dipenderebbe, in conclusione, “non da una scelta del soggetto attivo ma da una scelta del soggetto che riceve”.
Pertanto, la Corte osserva che “la istantaneità della comunicazione molesta veicolata tramite la messaggistica telematica, e la circostanza che essa giunga in un momento improvviso non regolabile dal soggetto che riceva la comunicazione, sono, infatti, caratteristiche accessorie del mezzo utilizzato, che il destinatario può evitare, sottraendosi a quella interazione immediata con il mittente che è la linea di delimitazione della fattispecie penale. Ne consegue che […] il fatto di cui è stata ritenuta responsabile l’imputata non è sussumibile nella fattispecie penale dell’art. 660 c.p., in quanto non commesso col mezzo del telefono, nel significato attribuito a questa locuzione dalla giurisprudenza di legittimità”.
La decisione della Suprema Corte, tuttavia, non appare particolarmente persuasiva e si presta ad alcuni rilievi critici.
Ed invero, considerato che la giurisprudenza attribuisce, pacificamente, rilievo decisivo all’invasività in concreto del mezzo utilizzato per comunicare con la persona offesa, allora l’indagine dell’interprete in ordine alla sussistenza del reato di molestia andrebbe effettuata tenendo in considerazione l’effettivo grado di intrusione che si verifica nella sfera privata della persona offesa.
D’altra parte, richiedere un comportamento attivo dal destinatario delle comunicazioni - il quale sarebbe tenuto a disattivare le notifiche sonore o di preview - equivale a porre in capo allo stesso un onere di attivazione al fine di scongiurare che il contegno del soggetto attivo sia tracciato da illiceità penale.
Inoltre, escludendo dal perimetro di operatività dell’art. 660 c.p. le condotte attuate con l’invio di messaggi istantanei - in considerazione della mera possibilità di disattivare le notifiche - si corre il rischio di ritenere penalmente irrilevanti quelle condotte petulanti e moleste perpetrate attraverso il mezzo del telefono inteso nella sua accezione comune, vale a dire con le semplici chiamate.
Non può sottacersi, infatti, che le innovative funzionalità degli smartphone permettono di bloccare qualsiasi tipo di notifica e, in particolare, anche quelle acustiche o visive che si attiverebbero a seguito di una normale chiamata effettuata col mezzo del telefono: attraverso tale opzione, infatti, il destinatario può evitare di ricevere chiamate da un numero di telefono collegato ad una determinata sim-card.
Sicché non appare convincente il ragionamento seguito dalla Suprema Corte laddove ritiene che l’invasività del mezzo utilizzato non vada dedotta dal tipo di comunicazione in quanto tale, ma andrebbe attribuita ad una scelta del soggetto che riceve la comunicazione.
Per le ragioni esposte, infatti, la natura molesta e petulante - rectius invasiva - della comunicazione andrebbe, per vero, sempre esclusa, vista la possibilità per il soggetto passivo di sottrarsi alla ricezione di messaggi o chiamate attraverso le apposite funzionalità di blocco.
Sul punto, con la sentenza D’Antoni, si esprimeva la Corte di Cassazione, osservando che risulta irrilevante, ai fini della configurabilità del reato ex art. 660 c.p., che il destinatario di messaggi non desiderati potrebbe evitarne la ricezione semplicemente bloccando o escludendo il contatto indesiderato, perché con le stesse modalità è possibile evitare anche la ricezione degli sms sgraditi, come pure escludere la chiamata telefonica proveniente da un’utenza molesta, sfruttando le funzionalità di blocco presenti sulla maggior parte dei dispositivi (Cfr. Cass. pen., Sez. I, 18 marzo 2021, n. 37974).
Peraltro, le funzionalità che permettono di disattivare le notifiche, nel caso concreto, potrebbero essere utilmente impiegate dal destinatario dei messaggi - o delle chiamate - successivamente alla ricezione delle comunicazioni moleste e, dunque, solo dopo che l’azione perturbatrice del soggetto attivo è stata già subita e avvertita come tale.
In tal caso, l’unico effetto che potrebbe derivare dal blocco delle notifiche sarebbe quello di evitare una reiterazione delle condotte moleste, circostanza che, a ben vedere, non impedirebbe di ritenere comunque perfezionato il reato previsto dall’art. 660 c.p.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. I, 3 ottobre 2023, n. 40033)
stralcio a cura di Annapia Biondi
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