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Rapporti tra nullità del matrimonio religioso e cessazione degli effetti civili del matrimonio, presupposti dell'assegno divorzile.
Michele Emanuele Leo
La suprema Corte di cassazione è stata chiamata a dirimere un interessante contrasto di giurisprudenza dal seguente tenore: “se il giudicato interno (per effetto di sentenza parziale o capo autonomo non impugnato della sentenza) che dichiari la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario sia idoneo a paralizzare gli effetti della nullità del matrimonio, dichiarata con sentenza ecclesiastica successivamente delibata dalla Corte d'appello (con sentenza passata in giudicato), solo in presenza di statuizioni economiche assistite dal giudicato o anche in assenza di dette statuizioni, con l'effetto (nel secondo caso) di non precludere al giudice civile il potere di regolare, secondo la disciplina della legge n. 898 del 1970 e succ. mod., i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi il cui vincolo sia consacrato in un atto matrimoniale nullo”.
La vicenda trae origine da una decisione del Tribunale di Lucca con cui, pronunciata la cessazione degli effetti civili del matrimonio, veniva statuito l'obbligo di omissis a corrispondere un assegno mensile di 450,00 euro in favore di omissis sua ex moglie.
Il detto provvedimento giudiziale veniva impugnato dall'uomo esclusivamente in ordine al riconoscimento dell'assegno divorzile.
All'esito del gravame, la Corte d'appello rigettava la domanda valutando corretta la decisione del Giudice di prime cure sul presupposto che mentre l’uomo, nel tempo, era riuscito a realizzarsi professionalmente, la donna si era ritrovata senza lavoro e senza alcuna entrata economica.
Pertanto, il giudice aveva liquidato l'assegno divorzile secondo quanto già attribuitole durante la modifica delle condizioni di separazione.
Avverso la sentenza l’uomo proponeva ricorso per Cassazione contestando la corresponsione dell'assegno all'ex moglie.
Nel corso del giudizio di legittimità questi depositava sentenza della Corte d’appello di Firenze che rendeva “esecutiva nel nostro ordinamento una sentenza del Tribunale Ecclesiastico Regionale, ratificata dalla Segnatura Apostolica” che dichiarava la nullità del matrimonio contratto.
Chiedeva, dunque, la cessazione della materia del contendere e di valutare quale prova della durata della breve convivenza intercorsa, le dichiarazioni rese dalla donna nel giudizio ecclesiastico.
A questo punto, ipotizzando un contrasto giurisprudenziale, la prima sezione civile della suprema Corte di cassazione rimetteva la questione alle Sezioni unite per addivenire ad una soluzione.
Infatti, secondo un precedente e recente orientamento della stessa sezione, la nullità matrimoniale successiva al passaggio in giudicato della cessazione degli effetti civili non avrebbe impedito la prosecuzione del giudizio di divorzio in ordine alla decisione sulla determinazione dell'assegno divorzile “trattandosi di procedimenti autonomi aventi finalità e presupposti diversi”.
La base della disamina della detta statuizione si colloca in ordine alla natura dell'obbligo di “mantenimento dell'ex coniuge” fondato sull'accertamento “dell'impossibilità della continuazione della comunione spirituale e morale fra i coniugi stessi...concludendo che la questione della spettanza e della liquidazione dell'assegno divorzile non è preclusa quando l'accertamento inerente all'impossibilità della prosecuzione della comunione spirituale e morale fra i coniugi […] sia passato in giudicato prima della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del medesimo matrimonio, come si verifica nell'ipotesi in cui nell'ambito di un unico giudizio la statuizione relativa allo stato sia stata emessa disgiuntamente da quelle inerenti ai risvolti economici”.
Il detto assunto però secondo l'ordinanza di rimessione, contrasterebbe “con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di divorzio, che, in riferimento all'ipotesi della sopravvenienza della dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, ne esclude l'incidenza sulle statuizioni di ordine economico conseguenti alla pronuncia di cessazione degli effetti civili, qualora le stesse siano già divenute definitive, riconoscendone invece l'idoneità ad impedire la prosecuzione del giudizio ed a travolgere la stessa sentenza di divorzio, se in ordine a quest'ultima non sia ancora intervenuta la formazione del giudicato”.
La suprema Corte di cassazione ripercorre alcuni tratti salienti delle precedenti statuizioni sul punto evidenziando che i giudizi che hanno ad oggetto la declaratoria di nullità matrimoniale non rientrano più nella competenza esclusiva dei Tribunali ecclesiastici ben potendo la stessa essere trattata dal giudice civile, pertanto: “poiché le parti possono ormai dedurre nel processo per la cessazione degli effetti civili del matrimonio la nullità del vincolo matrimoniale, in forza del principio secondo il quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile, la sentenza di divorzio, pur non impedendo la delibazione della sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dai Tribunali ecclesiastici, impedisce che la delibazione travolga le disposizioni economiche adottate in sede di divorzio”. Di conseguenza se la sentenza di divorzio non ha svolto alcun tipo di accertamento sulla validità ed esistenza del matrimonio, nessun impedimento è posto al Tribunale ecclesiastico di delibare in ordine alla nullità del detto vincolo.
Diversa soluzione, invece, si avrà per le statuizioni di ordine economico che se passate in giudicato non possono più essere oggetto di accertamento.
A dire il vero, secondo l'analisi delle Sezioni unite le decisioni richiamate nell'ordinanza di remissione non possono considerarsi attinenti alla questione offerta in quanto in un caso “si riferiscono a casi in cui, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di delibazione, non era ancora divenuta definitiva la pronuncia di scioglimento del vincolo coniugale (...), ovvero a casi in cui, alla medesima data, era già passata in giudicato la sentenza recante la determinazione delle conseguenze economiche (….), e si limitano ad affermare che nella prima ipotesi il riconoscimento dell'efficacia della sentenza ecclesiastica impedisce la prosecuzione del giudizio di divorzio, determinando la cessazione della materia del contendere e travolgendo tutte le sentenze eventualmente pronunciate, mentre nella seconda ipotesi la pronuncia di divorzio e le statuizioni accessorie rimangono insensibili alla dichiarazione di nullità del matrimonio”.
Neppure di contrasto giurisprudenziale si potrebbe parlare “argomentando a contrario” se la sentenza di nullità intervenisse “dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di scioglimento del vincolo ma prima della determinazione dell'assegno” investendo il giudizio con conseguente arresto dello stesso.
Ciò che invece le Sezioni unite evidenziano attiene, piuttosto, alla diversità “di natura ed effetti tra la sentenza di nullità e di divorzio” le quali scaturiscono da giudizi autonomi “non solo destinati a sfociare in decisioni di diversa natura… ma aventi anche finalità e presupposti differenti”.
In questo senso le pregresse statuizioni delle Sezioni unite hanno già chiarito che i due giudizi costituiti da petitum e causa petendi propri comportano conseguenze diverse dal momento che “la domanda di nullità investe il matrimonio-atto, mentre quella della cessazione degli effetti civili incide sul matrimonio-rapporto” per cui la declaratoria di nullità matrimoniale non impedisce, se intervenuta dopo il passaggio in giudicato del divorzio, lo svolgimento del “giudizio civile ai fini dell'accertamento della spettanza e della liquidazione dell'assegno divorzile”.
Del resto il divorzio ha per oggetto lo scioglimento del vincolo matrimoniale, non certo la sua validità quindi l'obbligo di corresponsione dell'assegno divorzile scaturisce dall'impossibilità dei coniugi a vivere in comunione materiale e spirituale, nella consapevolezza di non riuscire più a ricostruire quanto ormai distrutto. In quest'ottica, la funzione dell'assegno divorzile è “non solo assistenziale, ma anche perequativo-compensativa”, elementi che in nessun modo vengono travolti dal successivo provvedimento ecclesiastico di nullità matrimoniale.
Da qui le conclusioni della Suprema Corte di cassazione a Sezioni unite: “In tema di divorzio, il riconoscimento dell'efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo coniugale, il quale può dunque proseguire ai fini dell'accertamento della spettanza e della liquidazione dell'assegno divorzile”.
Come è possibile evincere dalla sentenza qui in commento, la suprema Corte ha rigettato in toto il ricorso spiegato dall’uomo ivi compreso, in virtù dell'art. 115, 1 co. c.p.c., l'ultimo motivo di impugnazione relativo alla valenza delle dichiarazioni rese dalla donna nell’ambito del giudizio ecclesiastico per non aver contestato le circostanze dedotte dalla stessa nei giudizi pregressi in ordine alla breve durata della convivenza.
Sezione: Sezioni Unite
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