home / Archivio / Diritto Penale raccolta del 2023 / Sulla “pena illegale” del reato circostanziato (anche ai fini del ricorso per ..
indietro stampa contenuto leggi libro
Sulla “pena illegale” del reato circostanziato (anche ai fini del ricorso per Cassazione avverso la sentenza di patteggiamento)
Rosaria Mariagrazia Fiorentino
Il patteggiamento, rectius applicazione della pena su richiesta delle parti, rappresenta un procedimento speciale e la cui disciplina si rinviene dagli artt. 444 e ss. Esso si presenta come un rito deflattivo e premiale,in cui le parti imputato e pubblico ministero concordano la pena da scontare. Tuttavia per perfezionarsi è necessario l'intervento del giudice che deve ritenere che l'intesa raggiunta sia adeguata e corretta al reato commesso e solo a seguito di vaglio positivo il giudice emetterà sentenza riportando i termini dell'accordo.
L'intelaiatura normativa dell'istituto nel tempo ha subito sensibili modifiche dando così corpo ad una disciplina sui generis la cui fisionomia assume connotati non omogenei a secondo che la pena concordata si collochi entro (cd patteggiamento semplice) ovvero compresa tra 2 anni e 1 giorno e 5 anni (cd patteggiamento allargato).
In tema di patteggiamento la Suprema Corte è intervenuta diverse volte in ultimo la questione rimessa alle Sezioni Unite è stata così formulata: «se configuri “pena illegale”, ai fini del sindacato di legittimità sul patteggiamento, quella fissata sulla base di un'erronea applicazione del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee, in violazione del criterio unitario previsto dall'art. 69, comma terzo, cod. pen.» .
Nel caso in esame il Tribunale di Trieste aveva applicato all’imputato la pena di quattro anni e due mesi di reclusione e seicento euro di multa per il reato di furto pluriaggravato.
In particolare, la pena era stata così (testualmente) determinata «pena base: anni cinque e mesi tre di reclusione ed euro seicento di multa, "per il reato di furto nella ipotesi aggravata"; riconosciute le attenuanti generiche con la contestata recidiva in ragione della ammissione dei fatti resa dall'imputato"; pena aumentata ad anni sei e mesi tre di reclusione ed euro novecento di multa ex art. 81 cod. pen. per i reati di cui agli artt. 416 e 648 cod. pen., separatamente giudicati; ridotta ad anni quattro e mesi due di reclusione ed euro seicento di multa per il rito».
Nel proporre ricorso per cassazione, l'imputato aveva dedotto la violazione dell'art. 69 cod. pen., comma 3, c.p. perché eccedente il massimo edittale previsto per il furto semplice: il Tribunale, chiamato a bilanciare una serie di circostanze eterogenee concorrenti, avrebbe computato le circostanze aggravanti speciali del furto ( art.61, comma 1, nn 5 e 7 e art 625, comma1, nn 2,5,7 cp) senza bilanciarle con le riconosciute circostanze attenuanti generiche, i cui effetti sarebbero stati limitati al solo annullamento della recidiva contestata. Orbene, non risultava essere stata operata una riduzione di pena per le ritenute circostanze attenuanti generiche né tanto meno risultava essere stato operato un aumento di pena per la contestata recidiva, neppure esclusa.
Il ricorso è stato assegnato alla Quinta Sezione che con ordinanza n.9523 del 17 febbraio 2022 ha disposto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell'art. 618, comma 1, cod. proc. pen. in ordine all'esistenza di un contrasto interpretativo circa la nozione di "pena illegale".
Prima di esaminare la questione controversa, il Supremo Collegio opera passaggi importanti.
Innanzitutto una disamina delle due opzioni esegetiche contrastanti.
Secondo una prima tesi « nel c.d. "patteggiamento", la legalità, in relazione all'osservanza dei limiti edittali, della pena applicata va valutata considerando non soltanto la pena conclusivamente determinata, ma anche i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione (tra i quali rientrano anche quelli inerenti al bilanciamento delle circostanze eterogenee concorrenti)».
Il principio è ricavato con riferimento a due diverse tipologie di situazioni e cioè «in alcuni casi sono stati valorizzati errori che avevano portato all'applicazione di una pena la cui ritenuta illegalità costituiva oggettiva conseguenza delle valutazioni effettuate, o comunque dell'omissione di valutazioni che sarebbero state vincolate, e non meramente discrezionali» mentre «in altri casi, sono stati valorizzati errori che avevano portato all'applicazione di una pena la cui illegalità era meramente eventuale, perché condizionata all'esito di valutazioni doverose, ma omesse, per essere stato operato il giudizio di bilanciamento tra le circostanze attenuanti e soltanto alcune delle circostanze aggravanti concorrenti».
Di contro si riteneva che nel "patteggiamento" «l'illegalità della pena va determinata avendo riguardo alla pena finale applicata, non anche ai passaggi intermedi che portano alla sua determinazione, poiché soltanto il risultato finale delle predette operazioni di computo della pena costituisce espressione ultima e definitiva dell'incontro delle volontà delle parti: di conseguenza, non sarebbe "illegale", nel senso richiesto dall'art. 448, comma 2- bis, cod. proc. pen., se non eccedente, per specie o quantità, il limite legale, la pena determinata dal giudice non operando simultaneamente il giudizio di bilanciamento tra le circostanze eterogenee concorrenti bilanciabili, in quanto essa - pur erroneamente determinata - corrisponde pur sempre, per specie e quantità, a quella astrattamente prevista dalla fattispecie incriminatrice. Non sarebbe, pertanto, "pena illegale" quella viziata dalla violazione dei parametri di cui all'art. 69 cod. pen., inerenti al bilanciamento delle circostanze del reato, o di cui all'art. 133 cod. pen., inerenti alla misura delle diminuzioni conseguenti alla loro applicazione».
Le Sezioni Unite aderendo al secondo orientamento danno la seguente massima: «la pena determinata a seguito dell’erronea applicazione del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti è illegale soltanto nel caso in cui essa ecceda i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e seguenti, 65 e 71 e seguenti, cod. pen., oppure i limiti edittali previsti, per le singole fattispecie di reato, dalle norme incriminatrici che si assumono violate, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge».
Il principio di legalità della pena, ricordano, è un valore garantito oltre che «dall'art. 1 cod. pen., dall'art. 25, comma secondo, e dall'art. 27, comma terzo, della Costituzione: la pena può essere irrogata solo in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso e deve tendere alla rieducazione del reo, non potendo consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. La corretta individuazione della misura della pena irrogabile incide sulla corretta operatività dei principi di uguaglianza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27, comma terzo, Cost.), tale dovendo ritenersi soltanto quella in concreto idonea a tendere alla rieducazione del condannato; per altro verso, la predeterminazione di una cornice edittale inviolabile per il giudice costituisce il punto di equilibrio fra legalità ed individualizzazione della pena».
Il principio di legalità della pena è riconosciuto anche a livello sovranazionale.
L'art. 7 della CEDU sancisce, infatti, che « non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato».
E, dunque, la necessità di una «protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie» nonchè prevedibilità del precetto e delle specifiche conseguenze del reato per cui sarebbe una pena illegale quella di per sé "non prevedibile".
Il principio di legalità della pena è riconosciuto ancora dall'art. 49 della Carta di Nizza e dall'art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 che, oltre a prevedere espressamente il canone del nullum crimen, nulla poena sine lege, impone anche l'obbligatoria applicazione al colpevole della pena sopravvenuta più favorevole.
Pertanto la "pena legale" è quella del genere e della specie predeterminati dal legislatore entro limiti ragionevoli, comminata da una norma (sostanzialmente) penale, vigente al momento della commissione del fatto-reato, o, se sopravvenuta rispetto ad esso, più favorevole di quella anteriormente prevista ed infine determinata dal giudice, nel rispetto della cornice edittale, all'esito di un procedimento di individualizzazione che tenga conto del concreto disvalore del fatto e delle necessità di rieducazione del reo.
Invece, la "pena illegale" è quella che si colloca al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal legislatore perché diversa per genere, per specie o per quantità da quella positivamente prevista. Orbene nel "patteggiamento" non rilevano gli errori relativi ai singoli passaggi interni per la determinazione della pena concordata. Fondamentale è il controllo rigoroso del giudice sia sulla congruità della pena richiesta sia sulla correttezza dei "passaggi intermedi" attraverso cui essa è determinata. Il giudice ha il potere-dovere di non accogliere le richieste di "patteggiamento" che comportino l'applicazione di pene (non soltanto illegali, ma anche) non congrue, o comunque, seppur non illegali, determinate attraverso "passaggi intermedi" effettuati in violazione di legge.
Pertanto, in applicazione della massima summenzionata, il ricorso è stato dichiarato inammissibile posto che il vizio dedotto riguardava unicamente l'effettuazione di un passaggio intermedio in violazione dell'articolo 69 c.p per la mancata, simultanea comparazione di tutte le circostanze eterogenee concorrenti irrilevanti ai fini della legalità o meno della pena irrogata.
Sezione: Sezioni Unite
(Cass. Pen., Sez. Un., 12 gennaio 2023, n. 877)
Stralcio a cura di Fabio Coppola
Articoli Correlati: sentenza di patteggiamento - pena illegale