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Nozione di prodotto difettoso e vizio del prodotto: differenze tra art. 117 cod. cons. e art. 1490 c.c.
Martina Nicolino
Nel 1999, il sig. R.T., medico di base, assumeva il farmaco Lipobay 0,2 della Bayer S.p.A. Durante tale assunzione, lamentava una serie di disturbi quali “astenia, facile irritabilità, affaticamento e dolenza muscolare”. All’esito di accertamenti clinici, da cui emergeva “un elevato livello di CPK” nel sangue, sospendeva il trattamento, avvenuto per due mesi.
Nonostante l’interruzione del farmaco, le condizioni di salute del medico peggioravano progressivamente.
Nel maggio 2003, al secondo dei tre ricoveri effettuati, veniva confermata la diagnosi di “miopatia ai cingoli a lenta evoluzione e pneumopatia con deficit ventilatorio restrittivo di grado lieve”.
Pertanto, il sig. R.T. agiva in giudizio contro la Bayer S.p.A. innanzi il Tribunale di Venezia che, con sentenza n. 64 del 2013, riconosceva all’attore una somma a titolo di risarcimento dei danni dal medesimo sofferti all’esito dell’assunzione del farmaco Lipobay 0,2, “dalla su indicata società immesso sul mercato italiano e dalla medesima successivamente ritirato, che gli aveva provocato la c.d. miopatia dei cingoli”.
Avverso tale pronuncia del Giudice di prime cure, la Bayer S.p.A. proponeva appello, proponeva ricorso in via incidentale il sig. R.T.
La Corte di Appello di Venezia, “rigettato quello in via incidentale, in parziale accoglimento del gravame interposto dalla società Bayer S.p.A. e in conseguente parziale riforma della pronunzia di primo grado, rideterminava in diminuzione l’ammontare del risarcimento”.
Contro tale provvedimento la Bayer S.p.A. proponeva ricorso per Cassazione, denunziando che la Corte di merito:
- non avrebbe considerato che “il problema della difettosità non può coincidere con la semplice possibile insorgenza di effetti collaterali nocivi, ma deve invece ricondursi al problema di un corretto bilanciamento del rapporto rischio/beneficio relativo alla somministrazione dello stesso”;
- non avrebbe spiegato come mai “potesse costituire un "risultato anomalo" rispetto alla normalità delle aspettative" la patologia lamentata dalla controparte (...) chiaramente segnalata nell'informativa fornita con il prodotto”,
- non avrebbe valutato “le emergenze processuali ed in particolare della espletata CTU, essendosi limitata ad “aderire passivamente alle valutazioni (erronee) svolte dal giudice di prime cure circa la presunta esaustività e completezza dell’analisi peritale svolta nel corso del primo grado di giudizio”.
Resisteva con controricorso il R.T. che spiegava ricorso incidentale, lamentando la confusione della Corte “tra danno non patrimoniale e danno patrimoniale, nonché erroneamente escluso il danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica”.
Non si sottacciono, osservazioni preliminari degli Ermellini rispetto all’inidoneità delle censure mosse dai ricorrenti, che avranno un peso sulla decisione finale, atteso che: “non sono infatti sufficienti affermazioni - come nel caso - apodittiche, non seguite da alcuna dimostrazione”. I requisiti di formazione del ricorso per cassazione, ex art. 366 c.p.c., rilevano, infatti, “ai fini della giuridica esistenza e conseguente ammissibilità del ricorso, assumendo pregiudiziale e prodromica rilevanza ai fini del vaglio della relativa fondatezza nel merito, che in loro difetto rimane invero al giudice imprescindibilmente precluso”.
Con riferimento al ricorso in via principale, la Suprema Corte specifica, in primo luogo che “all'art. 117 del Codice del consumo (e già al D.P.R. n. 224 del 1988, art. 5) viene definito "difettoso" non già ogni prodotto insicuro bensì quel prodotto che non offra la sicurezza che ci si può legittimamente attendere in relazione al modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, alla sua presentazione, alle sue caratteristiche palesi alle istruzioni o alle avvertenze fornite, all'uso per il quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato, ai comportamenti che in relazione ad esso si possono ragionevolmente prevedere, al tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione[1]”.
All’uopo, la Corte ha ritenuto doveroso precisare, proprio in relazione al concetto di sicurezza del prodotto, la differenza tra la nozione di “difetto” e di “vizio”.
Mentre la prima, riconducibile al difetto di fabbricazione ovvero all’assenza o carenza di istruzioni, è strettamente connessa al concetto di sicurezza, la nozione di “vizio” di cui all'art. 1490 c.c., che descrive di un'imperfezione del bene può anche non comportare un'insicurezza del prodotto.
Proprio in merito al concetto di sicurezza, la Corte ha stabilito che “il livello di sicurezza prescritto, al di sotto del quale il prodotto deve considerarsi difettoso, non corrisponde a quello della sua più rigorosa innocuità, dovendo farsi riferimento ai requisiti di sicurezza dall'utenza generalmente richiesti in relazione alle circostanze specificamente indicate all'art. 117 Codice del consumo (e già al D.P.R. n. 224 del 1988, art. 5), o ad altri elementi in concreto valutabili e concretamente valutati dal giudice di merito, nell'ambito dei quali debbono farsi rientrare gli standards di sicurezza eventualmente imposti dalle norme in materia[2]”.
Per la verità, gli Ermellini chiariscono che “la verificazione del danno di per sé non deponga per la pericolosità del prodotto in condizioni normali di impiego, ma solo per una sua più indefinita pericolosità, invero insufficiente a fondare la responsabilità del produttore laddove non venga in concreto accertato che la stessa pone il prodotto al di sotto del livello di garanzia e di affidabilità richiesto dalle leggi in materia o dall'utenza[3]”. Infatti, l'onere della prova ex art. 120 del Codice del consumo prevede che sia il danneggiato a provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno; mentre il produttore deve provare i fatti che possono escludere la responsabilità ex art. 118 Codice del consumo: “la responsabilità da prodotto difettoso integra, pertanto, un'ipotesi di responsabilità presunta (e non già oggettiva), incombendo al danneggiato che chiede il risarcimento provare gli elementi costitutivi del diritto fatto valere. La prova della difettosità del prodotto può essere peraltro data anche per presunzioni semplici[4]”.
Considerato, di converso, che ad escludere la responsabilità del produttore di farmaci “non è invero sufficiente nemmeno la mera prova di aver fornito - tramite il foglietto illustrativo (c.d. “bugiardino”) - un'informazione che si sostanzi in una mera avvertenza generica circa la non sicurezza del prodotto (cfr. Cass., 15/3/2007, n. 6007), essendo necessaria un'avvertenza idonea a consentire al consumatore di acquisire non già una generica consapevolezza in ordine al possibile verificarsi dell'indicato pericolo in conseguenza dell'utilizzazione del prodotto bensì di effettuare una corretta valutazione (in considerazione delle peculiari condizioni personali, della particolarità e gravità della patologia nonché del tipo di rimedi esistenti) dei rischi e dei benefici al riguardo, nonché di adottare tutte le necessarie precauzioni volte ad evitare l'insorgenza del danno, e pertanto di volontariamente e consapevolmente esporsi al rischio (con eventuale suo concorso di colpa ex art. 1227 c.c., in caso di relativa sottovalutazione o di abuso del farmaco)”, la corte di merito, secondo la Cassazione, ha fatto sostanzialmente corretta applicazione di tutti i principi appena enunciati.
In ordine all’ultimo profilo, emerge in maniera evidente, come “le deduzioni del ricorrente (...) in realtà si risolvono nella mera doglianza circa la dedotta erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell'inammissibile pretesa di una lettura dell'asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932)”.
All'inammissibilità e infondatezza dei motivi consegue il rigetto dei ricorsi, principale e incidentale. Stante la reciproca soccombenza, veniva disposta la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.
[1] v., da ultimo, Cass., 20/11/2018, n. 29828.
[2] v. Cass., 20/11/2018, n. 29828; Cass., 29/5/2013, n. 13458.
[3] v. Cass., 29/5/2013, n. 13458; Cass. 13/12/2010, n. 25116.
[4] A tale stregua, acquisita tramite fonti materiali di prova (o anche tramite il notorio o a seguito della non contestazione) la conoscenza di un fatto secondario, il giudice può in via indiretta dedurre l'esistenza del fatto principale ignoto (nella specie, il difetto del prodotto), sempre che le presunzioni abbiano il requisito della gravità, della precisione, della concordanza (v. Cass., 29/5/2013, n. 13458. Cfr. altresì Cass., 26/6/2008, n. 17535; Cass., 2/3/2012, n. 3281).
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. III, 10 maggio 2021, n. 12225)
stralcio a cura di Fabrizia Rumma
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