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Qualunque forma di violenza fisica o psicologica a scopi educativi esula dal perimetro applicativo dell´abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.) e può integrare il più grave reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi (art. 572 c.p.)
Angela Micheletti
Con la pronuncia in commento, la Corte di cassazione ha annullato per violazione di legge la sentenza del Tribunale di Ravenna, rinviando alla Corte di appello di Bologna per un nuovo giudizio. Nello specifico, la Corte ha ritenuto che il Tribunale avesse erroneamente riqualificato l’originaria imputazione di “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”, di cui all’art. 572 c.p., nel delitto di “Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”, di cui all’art. 571 c.p., condannando l’imputato alla pena di venti giorni di reclusione.
Giova preliminarmente esaminare gli elementi costituivi delle due disposizioni che vengono in rilievo, ossia gli artt. 571 e 572 c.p., ponendo le stesse in correlazione tra loro.
In primo luogo, entrambe le fattispecie, malgrado la collocazione nel Capo dedicato ai delitti contro l’assistenza familiare, tutelano, secondo la dottrina prevalente, non l’assistenza familiare, ma l’integrità e l’incolumità psico-fisica della persona sottoposta al potere disciplinare altrui.
L’art. 571 c.p. a dispetto dell’utilizzo nel testo della norma del termine “chiunque”, è un reato proprio, potendo essere commesso solo da coloro che rivestono una posizione che gli consenta di esercitare un potere correttivo o disciplinare nei confronti dei soggetti sottoposti alla loro autorità o loro affidati per le ragioni indicate dalla norma. Affinché il delitto possa configurarsi è, dunque, necessaria la sussistenza del rapporto disciplinare tra il soggetto attivo e quello passivo, che può trarre la sua fonte sia dal diritto pubblico, sia dal diritto privato.
La condotta tipica consiste nell’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina. Come la Suprema Corte precisa nella sentenza in commento, l’abuso “… presuppone l’eccesso nell’uso di mezzi di correzione o di disciplina in sé giuridicamente leciti. Tali non possono, tuttavia considerarsi gli atti che, pur ispirati da un “animus corrigendi” sono connotati dall’impiego di violenza fisica o psichica.” D’altronde, il concetto stesso di abuso evoca l’esistenza di un uso legittimo del potere correzionale o di disciplina, non potendo essere la finalità presa di mira dal soggetto agente ad attribuire l’etichetta di strumento educativo al mezzo adoperato, occorrendo, piuttosto, che esso sia tale per natura e per normale destinazione.[1] Pertanto, integra il delitto di cui all’art. 571 c.p. l’uso in funzione educativa del mezzo astrattamente lecito, che, tuttavia, trasmoda in abuso sia in ragione dell’arbitrarietà o intempestività della sua applicazione, sia in ragione dell’eccesso della misura, dovendosi invece escludere che l’intento educativo dell’agente costituisca elemento dirimente per far rientrare il sistematico ricorso ad atti di violenza nella suddetta fattispecie.
La norma prevede una condizione obiettiva di punibilità, in quanto l’abuso è penalmente rilevante solo se dal fatto derivi il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente. Non basta la mera possibilità, ma occorre la probabilità del verificarsi della malattia, la cui nozione, secondo alcuni sarebbe la medesima di quella di cui ai delitti di percosse e lesioni personali, mentre secondo altri sarebbe più ampia, estendendosi fino a ricomprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo.[2]
L’elemento soggettivo è rappresentato dal dolo, che, secondo un orientamento tradizionale, sarebbe specifico, in virtù della centralità del fine dell’agente di esercitare la legittima potestà disciplinare, mentre secondo un altro orientamento, ormai prevalente e condiviso dalla giurisprudenza, sarebbe generico, mancando quel fine ulteriore rispetto al fatto di reato che connota il dolo specifico, data la coessenzialità del fine correttivo-disciplinare rispetto al fatto dell’abuso.
Anche l’art. 572 c.p., così come l’art. 571 c.p., a dispetto dell’utilizzo del termine “chiunque”, è un reato proprio, dovendo l’agente essere legato al soggetto passivo da un rapporto familiare, oppure investito di autorità nei suoi confronti o comunque averne l’affidamento per le ragioni indicate dalla norma.
La condotta incriminata consiste nel maltrattare, ossia nel provocare nel soggetto passivo una continua situazione di sofferenza fisica o morale con effetti di prostrazione o avvilimento. La quasi totalità della dottrina e della giurisprudenza ritiene che si tratti di un reato necessariamente abituale, occorrendo per la sua integrazione, la reiterazione nel tempo di una serie di comportamenti, anche omissivi. In particolare, si tratta di un reato abituale proprio, in quanto la condotta tipica può realizzarsi sia attraverso atti ex se qualificabili come reato (percosse, lesioni, minacce ecc.), sia attraverso atti che, se considerati isolatamente non costituiscono reato (umiliazioni, privazioni, atti di disprezzo ecc.), mentre, se considerati unitamente, nel loro ripetersi nel tempo, integrano la fattispecie di maltrattamenti.
L’elemento soggettivo è rappresentato dal dolo generico, che abbraccia tutti gli elementi del reato, compresa l’abitualità. Non è, tuttavia, richiesta la rappresentazione mentale anticipata di tutti i singoli episodi di maltrattamento, essendo sufficiente la coscienza e volontà di infliggere alla vittima una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, mediante una serie di comportamenti avvinti da un nesso psicologico comune, pur senza unicità di disegno criminoso. Occorre, dunque, la consapevolezza di attuare l’atto di prevaricazione in un contesto di reiterazione della condotta vietata, ma non la programmazione fin dall’inizio dei singoli episodi. Il dolo, pertanto, è unitario e graduale, costituendo il dato unificatore delle condotte.
Venendo al caso in esame, la riqualificazione dell’imputazione da parte del Tribunale di Ravenna, censurata dalla Corte di cassazione, era avvenuta in considerazione di alcuni elementi, quali: l’orizzonte temporale dell’imputazione, il carattere episodico delle condotte e la loro correlazione al cattivo rendimento scolastico del figlio minore dell’imputato. In particolare, le condotte, poste in essere da gennaio ad aprile 2019, erano consistite nel calciare quest’ultimo sul sedere, nell’esternagli dubbi sulla paternità, nel chiuderlo fuori sul terrazzo di casa in orario notturno per circa un’ora, nel colpirlo con una cinta alla schiena.
Ebbene, con riguardo al profilo dell’orizzonte temporale delle condotte, occorre rilevare che l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia è costituito da una pluralità di atti vessatori, che provocano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, anche se in un limitato contesto temporale.[3] Peraltro, il reato di maltrattamenti in famiglia si ritiene integrato anche quando le sistematiche condotte violente e sopraffattrici non costituiscano l’unico registro comunicativo con il familiare, ma siano intervallate da condotte prive di tali connotazioni o dallo svolgimento di normali attività familiari, in quanto le ripetute manifestazioni di mancanza di rispetto e di aggressività conservano comunque il loro connotato di disvalore.[4]
Relativamente al carattere episodico delle condotte, è necessario sottolineare che nei reati abituali, come quello di cui all’art. 572 c.p., la condotta seriale è caratterizzata proprio dalla discontinuità, stante la reiterazione di più fatti omogenei, legati da un nesso di abitualità, ossia da un nesso oggettivo di persistenza, che consente di ravvisare l’unicità di offesa. Per il concretarsi del delitto di maltrattamenti in famiglia non è, quindi, richiesto un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto, bensì una condotta abituale estrinsecantesi con più atti, delittuosi o meno, determinanti sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, ma collegati da un nesso di abitualità e dall’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, ossia di infliggere abitualmente sofferenze.[5]
Con riferimento al profilo della correlazione delle condotte dell’imputato al cattivo rendimento scolastico del figlio, occorre evidenziare che nell’ordinamento italiano, incentrato sulla Costituzione della Repubblica e qualificato dalle norme di diritto di famiglia e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino del 1989, il termine “correzione”, utilizzato dall’art. 571 c.p., deve essere assunto quale sinonimo di educazione. Infatti, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo, esso deve essere teso a promuovere la persona ad un grado di maturità tale da renderla capace di un’integrale e libera espressione delle proprie attitudini, inclinazioni e aspirazioni.
A tal proposito, giova precisare che i moderni indirizzi pedagogici e gli attuali standard di civiltà che governano le relazioni interpersonali rifiutano il ricorso ai metodi violenti e ritengono che lo sviluppo della personalità e l’adesione ai valori vigenti in un dato momento storico debbano essere perseguiti con la cultura, il confronto e il dialogo.[6] Dunque, alla luce dell’evoluzione culturale in tema di metodi educativi da adottare nei confronti dei minori e del nuovo assetto normativo che regola i rapporti familiari, deve ritenersi bandita ogni forma di violenza, quale legittimo strumento a cui fare ricorso per scopi educativi. La stessa Corte nella sentenza in commento chiarisce, infatti, che “… l'uso di qualunque forma di violenza fisica o psicologica a scopi educativi esula dal perimetro applicativo dell'art. 571 c.p.; ciò sia per il primato che l'ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di connivenza utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice.”
In sintesi, il potere educativo esercitato dal genitore nei confronti del figlio, non deve mai superare i limiti previsti dall’ordinamento, né sfociare in maltrattamenti mortificanti la sua personalità[7], non potendosi ritenere lecito l’uso sistematico da parte del genitore di violenza fisica e morale, come ordinario trattamento del figlio minore, anche se sorretto da animus corrigendi, venendo in rilievo in tal caso il più grave reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione.[8]
[1] Capitolo 7 I delitti contro i valori familiari, Sezione IV, I delitti contro l’assistenza familiare, p. 382, Fiandaca-Musco, Diritto penale Parte speciale - Volume II, tomo primo, I delitti contro la persona, Quarta edizione.
[2] Tra le altre. Cass. Pen., 22 gennaio 2020, n. 7969.
[3] Tra le altre, Cass. Pen., 19 marzo 2019, n. 12196.
[4] Tra le altre, Cass. Pen., 11 febbraio 2016, n. 14742.
[5] Tra le altre, Cass. Pen., 5 aprile 2018, n. 29255.
[6] Capitolo 7 I delitti contro i valori familiari, Sezione IV, I delitti contro l’assistenza familiare, p. 379, Fiandaca-Musco, Diritto penale Parte speciale, Volume II, tomo primo, I delitti contro la persona, Quarta edizione.
[7] Tra le altre, Cass. Pen., 6 novembre 2018, n. 17810.
[8] Tra le altre, Cass. Pen., 2 luglio 2019, n. 36832; Cass. Pen., 5 novembre 2019, n. 44893.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. VI, 27 aprile 2023, n. 17558)
Stralcio a cura di Fabio Coppola
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