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Trasfusione sangue infetto e responsabilità della struttura sanitaria: onere probatorio e legittimazione passiva
Rosa D'Errico
La sentenza in commento concerne la discussa tematica relativa alla questione della responsabilità per danno alla salute cagionato da trasfusioni di sangue infetto ed in particolare ai criteri di riparto dell'onere probatorio.
La complessa problematica della responsabilità professionale, specialmente quella medica, è da sempre un tema complesso che ha suscitato un intenso dibattito sia nel mondo medico che in quello giuridico.
Due riforme si sono succedute a distanza di breve tempo l'una dall'altra: la legge 189 del 2012 cd. Balduzzi e la legge n. 24 del 2017 cd. Gelli-Bianco.
Alla base delle riforme legislative vi sono interessi opposti da contemperare, in particolare, da un lato, vi è la necessità di evitare privilegi per la classe medica, dall'altro lato, vi è invece l'esigenza di impedire il ricorso alla cd. medicina difensiva, la quale può avere come conseguenza un uso non razionale delle risorse pubbliche.
La vicenda processuale in esame prende le mosse dal ricorso proposto da A.A. avverso l'Azienda Sanitaria Provinciale (A.S.P.), finalizzato all'ottenimento di risarcimento danni, dopo aver contratto un'epatopatia HCV (Hepatitis C Virus), determinata da un'emotrasfusione presso una struttura ospedaliera della suddetta Azienda.
L'azienda sanitaria convenuta in giudizio, contesta, oltre al rigetto della domanda avanzata dalla ricorrente in quanto priva di fondamento, la sua stessa idoneità ad essere citata in giudizio, sottolineando la necessità di dichiarare la legittimazione passiva del Ministero della Salute.
In primo grado il Tribunale accoglie la richiesta avanzata dalla Signora A.A. condannando l'ente sanitario al risarcimento dei danni subiti a causa della trasfusione.
Successivamente, l'azienda sanitaria propone ricorso in Appello contro la sentenza che l'aveva dichiarata soccombente.
Nel ricorso l'azieda sanitaria solleva nuovamente e in via preliminare l'eccezione di difetto di legittimazione passiva del Ministero della Salute.
Inoltre, nel merito chiede il rigetto di tutte le domande avanzate della paziente, sostenendo l'inesistenza del nesso causale tra la trasfusione effettuata e le patologie sofferte.
La Corte di Appello sospende l'esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado e rigetta sia l'eccezione di difetto di legittimazione passiva, sia la domanda nella sua interezza avanzata dalla paziente.
Per quanto riguarda la problematica relativa alla legittimazione passiva, la Corte riafferma un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, ossia che "la legittimazione passiva per le domande di risarcimento del danno da emotrasfusione può spettare sia al Ministero della Salute a titolo di responsabilità aquiliana, sia alla struttura sanitaria a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c.".
Per quanto concerne il merito della vicenda processuale, invece, la Corte sostiene che il giudice di primo grado non aveva tenuto conto che il sangue, dal momento del prelievo iniziale fino alla trasfusione, seguiva un percorso noto come "circuito chiuso", come espressamente previsto dalla normativa (articolo 11 del Decreto Ministeriale del 27 dicembre 1990). Pertanto, secondo tale impostazione normativa, era pressochè impossibile che il sangue potesse contaminarsi con il virus epatico, a meno che non fosse dimostrato un intento doloso lungo tale percorso.
Inoltre, la paziente non aveva fornito la prova della sua immunità, al momento dell'ingresso nella struttura sanitaria, da epatopatia C, poichè al momento del ricovero presentava un deterioramento epatico compatibile con una possibile infezione da virus HCV.
Ne derivava che la paziente "non aveva provato il nesso di causalità materiale, presupposto imprescindibile per l'insorgenza dell'onere del debitore di provare l'esatto adempimento o l'impossibilità di esso".
Contro la pronuncia della Corte di Appello, la parte danneggiata presenta ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 360 e seguenti del codice di procedura civile.
Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente evidenzia che vi è stata, da parte del giudice d'Appello, una "inammissibile inversione dell'onere della prova": difatti i giudici di merito hanno "ritenuto che fosse onere della danneggiata-paziente fornire la prova di essere immune all'HCV al momento dell'ingresso nella struttura sanitaria, nonchè aver ritenuto presunta la positività in detto momento".
All'atto del ricovero, invero, la paziente presentava una compromissione epatica astrattamente compatibile con una eventuale infezione da HCV, ma ciò non costituiva una prova inequivocabile di una preesistente infezione.
Detta positività era stata inoltre presunta senza che la Corte di Appello indicasse ulteriori indizi gravi, precisi e concordanti a sostegno di tale conclusione.
Con il secondo motivo di ricorso, inoltre, la ricorrente-danneggiata evidenzia di aver assolto l'onere probatorio posto a suo carico dimostrando sia l'esistenza della patologia, sia, in via presunta, il nesso di causalità materiale tra la condotta dei medici ed il danno subito.
Contesta, inoltre, che il procedimento "a circuito chiuso" attiene solo ad una fase specifica: quella della separazione e conservazione del sangue prelevato dal donatore nelle apposite frigoemoteche, non estendendendosi, invece, alle successive fasi che conducono alla somministrazione del sangue al paziente.
Con il terzo motivo di ricorso, infine, la paziente -danneggiata lamenta la mancanta attenzione alle osservazioni presentate dal consulente tecnico di parte, nonchè la mancanza di una motivazione adeguata in merito alla decisione di disattenderle.
L'ente sanitario, invece, mediante un ricorso incidentale condizionato, solleva eccezione in merito alla legittimazione passiva del Ministero della Salute in relazione ai danni da emotrasfusione.
La Corte di Cassazione cassa il provvedimento impugnato e rinvia alla Corte di Appello, con una composizione giudiziaria diversa, per una nuova valutazione della vicenda processuale alla luce dei principi di diritto di seguito enunciati.
In primis, in relazione alla questione di legittimazione passiva del Ministero, si richiama un principio giurisprudenziale consolidato nel tempo, precisando che "la legittimazione passiva per le azioni di risarcimento dei danni da emotrasfusione spetta al Ministero della salute a titolo di responsabilità aquiliana e alla struttura sanitaria a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c.".
Nel merito, i giudici di legittimità affermano che la legittimazione passiva dell'ASP è corretta in quanto la paziente ha citato in giudizio tale ente e ha denunciato, pertanto, il cattivo operato dei medici che ivi vi prestano servizio.
La ricorrente, difatti, fa valere l'inadempimento delle obbligazioni nascenti dal cd. "contratto atipico di spedalità", evidenziando in tal modo la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria.
La Suprema Corte, già in altre pronunce, aveva evidenziato – così come richiamato anche nel ricorso presentato dalla paziente – che "in tema di responsabilità contrattuale della struttura saniataria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante" (Cass. S.U. n. 577 del 11.01.2008).
Inoltre, meritano di essere menzionate ulteriori pronunce giurisprudenziali in tema di responsabilità professionale medica e della controversa questione del riparto dell'onere della prova, con le quali i giudici di legittimità precisano che "è onere del creditore danneggiato provare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), il nesso di causalità, secondo il criterio del "più probabile che non", tra la condotta del professionista e il danno lamentato, mentre spetta al professionista dimostare, in alternativa all'esatto adempimento, l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile, da intendersi nel senso oggettivo della sua inimputabilità all'agente" (Cass. Sez III, n. 10050 del 29.03.2022).
La Corte di Appello ha pertanto imposto alla paziente un onere probatorio non conforme ai dettami scolpiti nelle precedenti pronunce giurisprudenziali.
Nel caso specifico, difatti, è stato imposto alla danneggiata di dimostare l'assenza di una malattia epatica al momento del ricovero, senza poi valutare gli elementi addotti dalla paziente stessa ai fini di ritenere provato, presuntivamente, il nesso causale tra la condotta dei sanitari e l'evento lesivo di cui chiede il risarcimento.
Inoltre, tale Corte non ha compiuto una valutazione adeguata per stabilire se la condotta dell'ente ospedaliero fosse conforme alla normativa di settore durante le complesse fasi di acquisizione e perfusione del plasma.
La Suprema Corte di Cassazione precisa pertanto che "in tema di danno da infezione trasfusionale, è onere della struttura sanitaria dimostrare che, al momento della trasfusione, il paziente fosse già affetto dall'infezione di cui domanda il risarcimento".
Infine ribadisce che "è onere della struttura sanitaria allegare e dimostrare di aver rispettato, in concreto, le norme giuridiche, le leges artis e i protocolli che presiedono alle attività di acquisizione e perfusione del plasma".
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. III, 7 settembre 2023, n. 26091)
stralcio a cura di Giovanni Pagano
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