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La condotta di stalking può essere indirizzata a terzi legati alla vittima da un rapporto di vicinanza, ove l´agente agisca nella convinzione che la vittima ne venga informata

Federico Maria Schettino

La Corte di legittimità, con la sentenza n. 41006/2023, è tornata a pronunciarsi sul reato di stalking. Trattasi di una condotta penalmente rilevante in molti ordinamenti, in quello italiano la fattispecie è rubricata “atti persecutori” all’art. 612 bis c.p. Con tale espressione si indicano quei comportamenti molesti e protratti, costituiti da continui appostamenti nei pressi del domicilio o comunque di ambienti frequentemente vissuti dalla vittima e caratterizzati da intrusioni nella sua vita privata alla ricerca di un contatto personale. È stata introdotta dal D.L. n. 11/2009, convertito dalla L. n. 38/2009 che ha introdotto la norma in argomento.

Il legislatore ha voluto dare una risposta sanzionatoria a tutti quei comportamenti che venivano inquadrati e disciplinati da altre e meno gravi fattispecie di reato (minaccia, violenza privata).

Queste ultime norme, infatti, si erano rivelate inidonee a tutelare adeguatamente le vittime, anche nei confronti di condotte illecite caratterizzate da una maggiore gravità, sia per la reiterazione delle stesse, sia per i loro effetti negativi sulla sfera privata e familiare delle persone offese.

Con la sentenza in esame si è dato rilevanza ai comportamenti messi in atto dal soggetto attimo del reato nei confronti di soggetti legati alla vittima (molestie indirette), ma con lo scopo di ingenerare in essa ansia e cambiamento delle proprie abitudini di vita.

Nel caso di specie l’imputata veniva condannata per aver tenuto condotte persecutorie nei confronti della persona offesa, in un episodio, nonché nei confronti del padre e degli zii. Nello specifico ai familiari venivano rivolte minacce di morte, e ad uno in particolare veniva danneggiata una vetrina.                                                                                                                            

La Corte d’Appello, conformandosi a un orientamento giurisprudenziale in consolidamento, riteneva che le condotte, seppur rivolte a soggetti differenti, erano indirizzate alla persona offesa. Tali comportamenti ingeneravano nella vittima, a conoscenza del fatto che essi erano rivolti alla propria persona, un perdurante stato di ansia e timore per l’incolumità propria e dei familiari.

L’imputata impugnava la sentenza per mancanza di motivazione in ordine all’idoneità dei comportamenti rivolti ai congiunti a realizzare la condotta prevista dall’art. 612 bis c.p., nonché allo stato di ansia e cambiamento della propria quotidianità.

Parte ricorrente riteneva errata la contestazione del reato di atti persecutori; l’accusa non era riuscita a provare che l’imputata fosse responsabile delle telefonate anonime e delle condivisioni su Facebook. Deduceva altresì che i messaggi offensivi rivolti ai familiari della vittima fossero da considerare ingiurie e non comportamento rivolti al destinatario direttamente. L’unico comportamento imputabile alla ricorrente erano le lesioni volontarie “che tuttavia, quale unico atto, non integra il reato contestato”.

La Corte di Cassazione rigettava il primo motivo di impugnazione (il solo rilevante ai fini del nostro discorso) enunciando il principio di diritto secondo cui: “in tema di atti persecutori, rientrano nella nozione di molestie anche le condotte che, pur non essendo direttamente rivolte alla persona offesa, comportino subdole interferenze nella sua vita privata (Sez. 5, n. 25248 del 12/05/2022, Rv. 283369 - 01), concretizzandosi in atti diretti a plurimi destinatari legati alla vittima da un rapporto qualificato di vicinanza, ove l'agente agisca nella ragionevole convinzione che la vittima ne venga informata e nella consapevolezza, della idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 8919 del 16/02/2021, Rv. 280497 - 01)”. Con riguardo alla doglianza sulla mancanza di motivazione relativo allo stato di ansia per l’incolumità propria e dei congiunti nonché del cambiamento delle proprie abitudini di vita, la Corte riteneva “...di qui il rilievo del giudice di appello, in linea con i dati probatori richiamati ed esente da vizi logici, che tali condotte, pur dirette ai familiari, erano idonee a colpire la persona offesa, ingenerando nella stessa un perdurante stato di ansia e di paura per l'incolumità propria e dei prossimi congiunti. Conclusione, questa, coerente con il consolidato indirizzo secondo cui, in tema di atti persecutori, la prova dello stato d'ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall'agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante (Sez. 5, n. 24135 del 09/05/2012, Rv. 253764 - 01; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, Rv. 269621-01)”.

Sul punto si richiama anche la sentenza della Cassazione n. 50746/2014 “In tema di atti persecutori, la prova dell'evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata”.

La Corte rigettava il ricorso e condannava parte ricorrente al pagamento delle spese di lite.    

Il reato di stalking, quindi, si intende consumato anche nel momento in cui le condotte reiterate nel tempo non sono rivolte direttamente alla vittima designata dal reo, ma anche nei confronti di persone ad essa legate da rapporti di familiarità, affettività, amicizia. Il soggetto passivo, tuttavia, deve essere a conoscenza di tali comportamenti, con la conseguenza che essi provocano uno stato di turbamento psichico che ingenera stato ansioso e/o modificazioni della propria vita quotidiana.

Ciò che rileva è l’esistenza di un nesso di causalità certo fra le reiterate condotte di minaccia o molestie e le tre possibili conseguenze alternative, ognuna delle quali è sufficiente a delineare il delitto, ma che, se realizzate contemporaneamente, fanno parte della stessa fattispecie incriminatrice: il perdurante stato di ansia; il timore fondato per l’incolumità propria, di un proprio congiunto o di una persona legata alla vittima da relazione affettiva; il cambiamento delle scelte di vita del soggetto che le subisce.

Argomento: Dei delitti contro la persona
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Pen., V Sez., 9 ottobre 2023, n. 41006) 

Stralcio a cura di Fabio Coppola

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“(…) in tema di atti persecutori, rientrano nella nozione di molestie anche le condotte che, pur non essendo direttamente rivolte alla persona offesa, comportino subdole interferenze nella sua vita privata (Sez. 5, n. 25248 del 12/05/2022, Rv. 283369 - 01), concretizzandosi in atti diretti a plurimi destinatari legati alla vittima da un rapporto qualificato di vicinanza, ove l'agente agisca nella ragionevole convinzione che la vittima ne venga informata e nella consapevolezza, della idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 8919 del 16/02/2021, Rv. 280497 - 01). Nel caso di specie, le condotte persecutorie "indirette" sono state compiute nei confronti del padre (al quale l'imputato rivolgeva la minaccia di uccidere il figlio) e dello zio (del pari destinatario di espressioni minacciose e non meramente ingiuriose come sostenuto dal ricorso), anzi, degli zii (avendo il primo riferito che l'imputato aveva danneggiato con un'ascia la vetrina di un proprio fratello): di qui il rilievo del giudice di appello, in linea con i dati probatori richiamati ed esente da vizi logici, che tali condotte, pur dirette ai familiari, erano idonee a colpire la persona offesa, ingenerando nella stessa un perdurante stato di ansia e di paura per l'incolumità propria e dei prossimi congiunti. Conclusione, questa, coerente con il consolidato indirizzo secondo cui, in tema di atti persecutori, la prova dello stato d'ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall'agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante (Sez. 5, n. 24135 del 09/05/2012, Rv. 253764 - 01; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, Rv. 269621 - 01)”.  

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