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Risponde di violenza privata il giornalista di inchiesta che assuma un atteggiamento insistente nei confronti dell´intervistato coartandone la libertà

Andrea Tigrino

IN FATTO:

 

Con sentenza del 31 gennaio 2021, poi confermata nel merito dalla Corte di Appello di Milano con decisione del 22 febbraio 2022, il Tribunale di Milano aveva ritenuto l'imputato responsabile del delitto di violenza privata (art. 610 c.p.), condannandolo alla pena di € 15.000 di multa e al risarcimento dei danni nei confronti della costituita parte civile.

Stando alla ricostruzione dei fatti, l'imputato, nelle vesti d'intervistatore per un noto programma televisivo (celebre per le inchieste condotte e i servizi di denuncia messi in onda), si era indebitamente introdotto insieme al suo cameraman nello stabile in cui risiedeva la persona offesa, presentandosi al custode del medesimo come corrieri di una società di spedizioni. Successivamente, al rientro della persona offesa, l'imputato impediva a quest'ultima di accedere alla palazzina dove era situata la sua abitazione, sottoponendole con insistenza una serie di domande alle quali dichiarava fin da subito di non voler rispondere. Successivamente, frapponendo la sua persona tra la soglia e la porta dell'ascensore, l'imputato ostacolava la chiusura delle porte di quest'ultimo, impedendo alla persona offesa di rientrare nel proprio appartamento e nuovamente rivolgendole ulteriori domande concernenti fatti per cui era stata sottoposta a procedimento penale.

 

Il ricorso per cassazione, proposto dall'imputato per il tramite del proprio difensore, si articolava in cinque motivi. I profili di maggior interesse attengono indubitabilmente al primo e al terzo.

Anzitutto, veniva dedotto un vizio di motivazione nonché l'asserito travisamento della prova in relazione all'elemento materiale dell'ascritto reato, sostenendosi che le riprese video poi messe in onda avrebbero smentito la suddetta ricostruzione dei fatti: stando a esse, infatti, l'imputato non avrebbe ostacolato né l'ingresso nello stabile, né il movimento dell'ascensore. Ciò premesso, l'impiego di telecamere non sarebbe stato da solo sufficiente a integrare la fattispecie delittuosa, stante l'assenza di violenza o minacce nel corso della registrazione. 

In seconda istanza, venivano lamentati violazione di legge – in relazione alla scriminante disciplinata dall'art. 51 c.p. – e vizio di motivazione, avendo la Corte meneghina escluso l'applicabilità della causa di giustificazione dell'esercizio di un diritto quando il fatto sia commesso non già attraverso la pubblicazione della notizia, bensì, a uno stadio cronologicamente precedente, per carpire la medesima. L'assenza di un bilanciamento fra diritti e interessi in gioco avrebbe disatteso anzitutto la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, giacché una lettura convenzionalmente orientata – il riferimento è chiaramente all'art. 10 C.E.D.U. in materia di libertà d'espressione – dell'art. 51 c.p. imporrebbe al giudice di valutare se la divulgazione di un articolo (o di un servizio giornalistico, nel caso di specie) apporti un contributo a un dibattito pubblico rispetto a un tema d'interesse generale (così in Fressoz e Roire c. Francia, riguardante il procacciamento di una notizia mediante condotte qualificate come concussive dal giudice nazionale). In questa ipotesi, infatti, la difesa sosteneva come l'interesse di informare la collettività ben potrebbe in concreto prevalere sui doveri e sulle responsabilità normalmente gravanti sui giornalisti.  

 

 

IN DIRITTO:

 

La Suprema Corte dichiarava inammissibile il primo motivo di ricorso, ritenendo condivisibili sul piano logico e giuridico le argomentazioni addotte dai giudici di merito. Esaminando nel complesso gli elementi di prova, i magistrati milanesi avevano infatti ampiamente dimostrato come la condotta dell'imputato si fosse tradotta «in un'ingiustificata compressione della libera determinazione della persona offesa»: più specificamente, la sussistenza dell'elemento oggettivo dell'ascritto reato veniva ravvisata nell'esercizio, da parte del ricorrente, di «una reiterata, insistente e oppressiva pressione esercitata sulla persona di [OMISSIS], per il tramite dell'imposizione di domande, di riprese video e di posture fisiche, cui la persona offesa tentava invano di sottrarsi». Un tale contegno, «costringendo la vittima a un “pati” (ovverosia a tollerare od omettere una condotta determinata […])», veniva ricondotto al concetto di violenza “impropria”, ossia, secondo costante giurisprudenza di legittimità, a «un tipo di coartazione dell'altrui libertà che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali».

Gli stessi giudici reputavano poi infondato il terzo motivo, ritenendo che la Corte territoriale, lungi dall'aver eluso l'operazione di bilanciamento correlata alla scriminante invocata, avesse al contrario fatto buon governo degli orientamenti elaborati in materia dalla giurisprudenza di legittimità. Nel dettaglio, è corretto escludere che «il diritto all'informazione possa condurre ad un esito favorevole all'imputato nel bilanciamento dei valori in gioco, quando si pretenda di invocarlo per giustificare forme illecite di compressione della libertà privata, quando non valori destinati a proteggere ancor più intensamente la persona, anche se la condotta sia commessa “per carpire informazioni alla fonte”».

Ciò considerato, la Sezione V esplicitava come «la scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca rilev[i] solo in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia»[1], reputando non convincente l'orientamento suggerito dalla difesa secondo cui la stessa opererebbe anche in relazione a quelli compiuti al fine di procacciarsi uno scoop. Sebbene Cass. pen., 7 giugno 2019, n. 38277 avesse ritenuto configurabile la scriminante ex art. 51 c.p. anche in relazione al delitto di ricettazione commesso al fine di ottenere la notizia, l'astratta applicabilità della stessa a ogni reato realizzato a tale scopo «non persuade, dal momento che il criterio finalistico non ha un reale significato selettivo, al più potendosi in astratto prospettare il parametro della «strumentalità necessaria», operante, prima ancora che sul piano soggettivo, sul piano oggettivo, tra il fatto commesso e l'accesso all'informazione». D'altronde, una simile generalizzazione condurrebbe a ritenere bilanciabile l'interesse all'acquisizione della notizia con valori diversi da quelli della tutela della reputazione, con conseguente operatività della causa di giustificazione rispetto a delitti quali il furto e la rapina.

 

 

COMMENTO:

 

La decisione in commento merita un approfondimento con riferimento a due specifici profili d'interesse, fra loro strettamente connessi: 1) la nozione di violenza “impropria” evocata dalla Suprema Corte; 2) le modalità e il grado di pertinacia attraverso cui l'attività giornalistica “d'inchiesta” può esprimersi affinché la causa di giustificazione disciplinata dall'art. 51 c.p. possa trovare applicazione, anche e soprattutto alla luce dei principi sovranazionali invocabili in relazione all'esercizio del diritto di cronaca.

 

1) Come esplicitato dai giudici di Piazza Cavour all'esito dell'esame del terzo motivo di ricorso, «il cuore della questione […] risiede nel fatto che il carattere di mera eventualità dell'acquisizione di una notizia e, soprattutto, la centralità della libertà di autodeterminazione della persona impongono di escludere in radice qualunque favorevole bilanciamento in favore di chi coarti la seconda, perseguendo un obiettivo informativo». Infatti, «pensare che la ricerca delle notizie possa spingersi sino al sacrificio della libertà personale di qualunque potenziale fonte significa supporre un potere inquisitorio persino superiore a quello del quale la pubblica autorità è dotata nel caso di commissione di reati». Nel caso esaminato, il giornalista «avrebbe ben potuto limitarsi a dare l'unica notizia possibile: ossia che l'interessata, richiesta di fornire una propria versione dei fatti, si era rifiutata».

In questi termini, una volta superate eventuali difficoltà probatorie (nel caso di specie, attraverso un corretto e integrale esame della videoregistrazione disponibile in atti), la sussunzione del fatto contestato nella fattispecie di violenza privata pare assolutamente condivisibile. Infatti, una prassi giornalistica la cui aggressività si spinga al punto da condizionare la libertà di movimento della persona offesa nel contesto dei suoi spazi abitativi si traduce per quest'ultima in una “costrizione a tollerare qualche cosa”, ben integrando i requisiti oggettivi del delitto di cui all'art. 610 c.p..

Richiamando nuovamente le parole della Sezione V, «ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione, ben potendo trattarsi di violenza fisica, propria, che si esplica direttamente nei confronti della vittima, o di violenza impropria che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui impedendone la libera determinazione» (cfr. Cass. pen., Sez. V, 18 maggio 2018, n. 40482).

La casistica richiamata da dottrina e giurisprudenza per dar corpo al concetto di violenza “impropria” e a quello di “mezzo anomalo” risulta essersi particolarmente ampliata nel corso degli ultimi decenni, abbracciando contegni in linea con la condotta tenuta dal reo nella vicenda oggetto di studio[2]: è il caso, oltre che dell'ostacolo alla chiusura di una porta causato dalla frapposizione di un piede (Cass. pen., Sez. V, 21 marzo 2016, n. 11914), del blocco realizzato mediante un'autovettura o finalizzato a ostacolare il veicolo altrui (ex multis, Cass. pen., Sez. V, 19 ottobre 2015, n. 4836; Cass. pen., Sez. V, 21 febbraio 2013, n. 8425; Cass. pen., Sez. V, 1° febbraio 2011, n. 7592), nonché più ampiamente di qualunque condotta che valga a impedire il libero movimento del soggetto passivo e ponga quest'ultimo nell'alternativa di non muoversi o di muoversi con il pericolo di menomare l'integrità altrui (ivi compresa quella dello stesso agente che ha consapevolmente generato lo sbarramento: così Cass. pen., Sez. V, 15 ottobre 2008, n. 41311).

 

2) Quanto all'applicabilità dell'esimente dell'esercizio del diritto di cronaca, le considerazioni svolte dalla Suprema Corte possono essere arricchite mediante un sintetico rimando alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. La vicenda esaminata, oltre a chiarire la non invocabilità della scriminante a fronte di «illecite forme di compressione della libertà privata» quali quelle integranti il delitto di violenza privata, si segnala infatti per il turbamento patito nel contesto della propria sfera abitativa, da cui l'avvertita esigenza di un richiamo – pur non operato dalla Cassazione – all'art. 8 C.E.D.U. (disposizione che, com'è noto, si pone quale presidio della vita privata e familiare nonché del domicilio e della corrispondenza dell'individuo).

Tale norma, generalmente chiamata in causa rispetto a vicende in cui la notizia risulti già diffusa (è il caso del “diritto all'oblio”, invocato da chi non intenda restare indeterminatamente esposto agli effetti pregiudizievoli prodotti dalla reiterata pubblicazione o dalla persistente accessibilità a una notizia che lo riguardi), estende il proprio ambito di operatività fino a riguardare anche le tecniche acquisitive impiegate: a tal proposito, in Khadija Ismaylova c. Azerbaigian(Sez. V, 10 gennaio 2019), la Corte di Strasburgo ha riconosciuto una violazione dell'art. 8 C.E.D.U. in relazione alla diffusione di videoriprese segretamente realizzate nella camera da letto della ricorrente.

Pertanto, pur in assenza di una casistica perfettamente aderente alla vicenda vagliata dai giudici italiani, è comprensibile interrogarsi sulla possibilità che le pratiche adottate da un certo giornalismo “d'assalto”, quando spinte al punto da violare la libertà di movimento dell'intervistato in un contesto domiciliare, possano dar luogo a frizioni con la disposizione in parola. Nonostante la difesa del giornalista avesse invocato la succitata sentenza resa nel caso Fressoz e Roire c. Francia(Grande Camera, 21 gennaio 1999) per giustificare i mezzi attraverso il fine, discutibile pare una generalizzazione tale da affermare un tendenziale predominio dell'interesse pubblico alla diffusione della notizia rispetto all'integrità della propria intimità domestica, giacché una simile presa di posizione rischierebbe di tradursi in una legittimazione di consuetudini professionali oltremodo invasive.

 

[1] In linea con tale orientamento, vedasi ex multis Cass. pen., Sez. V, 21 giugno 2019, n. 43569 (che ha escluso la configurabilità dell'esercizio del diritto di cronaca nel caso del giornalista il quale, ricorrendo a false generalità e qualifiche, si era introdotto in una struttura medico-assistenziale per acquisire notizie utili per la realizzazione di un servizio televisivo); Cass. pen., Sez. I, 7 aprile 2016, n. 27984 (per cui risponde del reato di cui all'art. 650 c.p. il giornalista che violi il divieto prefettizio di stazionare e circolare in una determinata zona al fine di acquisire notizie utili per la realizzazione di una trasmissione radiofonica inerente alle manifestazioni NO TAV).

[2] In dottrina, F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I. Delitti contro la persona, VI ed., Padova, 2016, p. 274 riconduce espressamente al concetto di violenza “impropria” l'ipotesi in cui l'agente impedisca alla vittima «di accedere ad un luogo chiudendo la porta d'ingresso o di passare ad altro luogo sbarrando il passo con la propria persona».

Argomento: Dei Delitti Contro la Persona
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Pen., Sez. V, 31 agosto 2023, n. 36407)

stralcio a cura di Annapia Biondi 

“(…) La sussistenza dell'elemento oggettivo dell'ascritto reato è stato correttamente individuato nell'esercizio, da parte del ricorrente, di una reiterata, insistente e oppressiva pressione esercitata sulla persona di [OMISSIS], per il tramite dell'imposizione di domande, di riprese video e di posture fisiche, cui la persona offesa tentava invano di sottrarsi; una condotta siffatta, costringendo la vittima a un "pati" (ovverosia a tollerare od omettere una condotta determinata: v., tra le tante, Sez. 5, n. 6208 del 14/12/2020, dep. 2021, Milan, Rv. 280507 — 01), può certo ricondursi a quella peculiare forma di violenza privata indicata dalla costante giurisprudenza di legittimità quale violenza "impropria", vale a dire un tipo di coartazione dell'altrui libertà «che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali». Invero, quella forma di insistente e reiterata pressione indicata dalla Corte territoriale è senz'altro uno degli «anomali mezzi» in cui può trovare espressione l'elemento materiale del reato di cui all'art. 610 cod. pen. (sul punto, v. già Sez. 5, n. 1195 del 27/02/1998, Piccinin, Rv. 211230 - 01, fino a Sez. 5, n. 11907 del 22/01/2010, Cavaleri, Rv. 246551, Sez. 5, n. 4284 det 29/09/2015, dep. 2016, G., Rv. 266020, ex plurimjs, secondo cui, ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, il requisito delta violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione, ben potendo trattarsi di violenza fisica, propria, che si esplica direttamente nei confronti della vittima, o di violenza impropria che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui impedendone la libera determinazione.” “(…) La Corte d'appello ha fatto buon governo degli orientamenti elaborati da questa Corte, secondo cui «la scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca rileva solo in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia e non anche rispetto ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima» ( in tal senso, Sez. 5, n. 43569 del 21/06/2019, P., Rv. 276990 — 02, in un caso nel quale è stata esclusa la configurabilità della scriminante per il giornalista che, utilizzando false generalità ed una falsa qualità, si era introdotto in [continua ..]

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