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Testimoni di giustizia: le “misure di assistenza” hanno natura indennitaria e non risarcitoria
Ilaria Marrone
Cass. civ., Sez. III, 11 febbraio 2020, n. 3313
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Nota di Ilaria Marrone
Il caso trae le mosse dal ricorso per cassazione promosso da un testimone di giustizia, condannato a restituire al coniuge, dal quale si era separato giudizialmente, e ai figli una parte delle somme di denaro corrisposte dal Ministero dell’Interno a titolo di “capitalizzazione del danno subito” a conclusione del programma speciale di protezione. Esse erano state accreditate sul conto corrente bancario cointestato dei due coniugi e prelevate dal ricorrente senza il consenso dell’altro coniuge. Il giudice di merito aveva ritenuto che le somme di denaro fossero confluite nella comunione legale e che, a seguito della separazione coniugale, operasse il regime della c.d. comunione de residuo. La comunione de residuo (o comunione differita) ha ad oggetto tutti i beni non consumati dei coniugi, con eccezione di alcuni, quali ad esempio i beni personali, come si desume dalla norma di cui all’art. 179 cc. Il collaboratore di giustizia sostiene che tali somme di denaro avrebbero la natura di beni personali ai sensi dell’art. 179 co. 1 lett. e) cc, esse consistendo in un risarcimento del danno. Ne consegue che le stesse dovrebbero escludersi dalla comunione legale e dalla successiva comunione de residuo. La questione relativa alla loro qualifica come bene personale ex art. 179 co. 1 lett. e) cc, ai fini del loro ingresso o meno nella comunione legale, si lega a doppio filo a quella della natura giuridica delle misure di assistenza patrimoniale. Le misure di assistenza patrimoniale sono disciplinate all’art. 16 ter D.L. 8/1991, conv. dalla L. 82/1991 [1]. L’art. 16 ter D.L. 8/1991, conv. dalla L. 82/1991, è stato introdotto con la L. 45/2001 in seguito alle spinte di derivazione nazionale e internazionale tese a promuovere una tutela ampia ed effettiva a tutti coloro che collaborassero con la giustizia nella lotta al crimine organizzato. Nel panorama internazionale spicca la nota Convenzione di Palermo del 15 novembre 2000 che impone agli Stati aderenti di adottare delle misure legislative (e non) con l’obiettivo di preservare non solo la sicurezza e l’incolumità dei collaboratori di giustizia ma anche di assicurarne una piena libertà di autodeterminazione nell’esercizio delle proprie prerogative esistenziali. Quanto alla questione sottesa al caso in esame, la Suprema Corte dà atto dell’esistenza di due possibili opzioni interpretative. Secondo un [continua ..]