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Testimoni di giustizia: le “misure di assistenza” hanno natura indennitaria e non risarcitoria

Ilaria Marrone

Cass. civ., Sez. III, 11 febbraio 2020, n. 3313

(…) Deve escludersi la natura “risarcitoria” (almeno in senso tecnico, al di là dell’ampio uso che di tale locuzione pure è fatta in atti e documenti ufficiali che li concernono) delle “misure di assistenza” di cui al D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, art. 16-ter, comma 1, lett. B. Si tratta, all’evidenza, di misure indennitarie, giacché il risarcimento presuppone, sempre, o l’inadempimento di un’obbligazione negoziale (o, al massimo, ex lege) (…). Che esista un’esigenza di protezione in capo a coloro che rendono la propria deposizione nei processi penali, è una realtà che si è gradualmente fatta strada anche in ambito internazionale. In questa prospettiva, spicca la Convenzione sulla lotta al crimine organizzato transnazionale circa le misure che gli Stati parti della Convenzione sono tenuti ad adottare in relazione all’assistenza e alla protezione da potenziali ritorsioni o intimidazioni dei testimoni, ed eventualmente dei loro familiari e delle altre persone ad essi vicine (si veda, in particolare, l’art. 24) (…). È in questo quadro che si colloca il citato art. 16-ter (inserito nel D.L. n. 8 del 1991 dalla L. 13 febbraio 2001, n. 45, art. 12, comma 1), che contempla “misure di protezione” che “si giustificano in virtù della circostanza che i soggetti in questione, denominati appunto “testimoni di giustizia”, sono esposti a pericolo quali persone offese dal reato, ovvero persone informate sui fatti o testimoni in relazione a delitti particolarmente gravi”. Orbene, esclusa possibilità di ravvisare in tale condotta “omissiva” il fatto – illecito – generatore di un obbligo risarcitorio, più corretto è attribuire a tali misure natura indennitaria, come conferma anche la circostanza che la loro erogazione presuppone, pur sempre, la sottoposizione dell’interessato ad un programma di protezione, disciplinato dallo stesso D.L. n. 8 del 1991. D’altra parte, anche il carattere discrezionale della loro erogazione costituisce un’ulteriore riprova della corretta qualificazione, di tali misure, in termini “indennitari” e non “risarcitori”. Ciò detto, pertanto, deve escludersi che le misure “de quibus” siano oggetto di un credito “risarcitorio”, che possa sottrarsi alla cosiddetta [continua ..]

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Nota di Ilaria Marrone

Il caso trae le mosse dal ricorso per cassazione promosso da un testimone di giustizia, condannato a restituire al coniuge, dal quale si era separato giudizialmente, e ai figli una parte delle somme di denaro corrisposte dal Ministero dell’Interno a titolo di “capitalizzazione del danno subito” a conclusione del programma speciale di protezione. Esse erano state accreditate sul conto corrente bancario cointestato dei due coniugi e prelevate dal ricorrente senza il consenso dell’altro coniuge. Il giudice di merito aveva ritenuto che le somme di denaro fossero confluite nella comunione legale e che, a seguito della separazione coniugale, operasse il regime della c.d. comunione de residuo. La comunione de residuo (o comunione differita) ha ad oggetto tutti i beni non consumati dei coniugi, con eccezione di alcuni, quali ad esempio i beni personali, come si desume dalla norma di cui all’art. 179 cc. Il collaboratore di giustizia sostiene che tali somme di denaro avrebbero la natura di beni personali ai sensi dell’art. 179 co. 1 lett. e) cc, esse consistendo in un risarcimento del danno. Ne consegue che le stesse dovrebbero escludersi dalla comunione legale e dalla successiva comunione de residuo. La questione relativa alla loro qualifica come bene personale ex art. 179 co. 1 lett. e) cc, ai fini del loro ingresso o meno nella comunione legale, si lega a doppio filo a quella della natura giuridica delle misure di assistenza patrimoniale. Le misure di assistenza patrimoniale sono disciplinate all’art. 16 ter D.L. 8/1991, conv. dalla L. 82/1991 [1]. L’art. 16 ter D.L. 8/1991, conv. dalla L. 82/1991, è stato introdotto con la L. 45/2001 in seguito alle spinte di derivazione nazionale e internazionale tese a promuovere una tutela ampia ed effettiva a tutti coloro che collaborassero con la giustizia nella lotta al crimine organizzato. Nel panorama internazionale spicca la nota Convenzione di Palermo del 15 novembre 2000 che impone agli Stati aderenti di adottare delle misure legislative (e non) con l’obiettivo di preservare non solo la sicurezza e l’incolumità dei collaboratori di giustizia ma anche di assicurarne una piena libertà di autodeterminazione nell’esercizio delle proprie prerogative esistenziali. Quanto alla questione sottesa al caso in esame, la Suprema Corte dà atto dell’esistenza di due possibili opzioni interpretative. Secondo un [continua ..]

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